ARTICOLO

Kerry, l'America diversa

CASTELLINA LUCIANA,USA

John Pilger è un grande e coraggioso giornalista. Basterebbe ricordare i suoi articoli più recenti, quelli sulla guerra contro l'Iraq, una delle pochissime voci che hanno raccontato la verità e gridato la vergogna del proprio paese per aver partecipato all'aggressione. Mi è dunque molto increscioso esprimere la mia assoluta contrarietà per quanto egli ha scritto nei giorni scorsi, sul settimanale inglese The New Statesman, ripreso da il manifesto il sabato 3 aprile con il titolo «Bush o Kerry? Per me pari sono». Se prendo la penna per obiettare alla sua tesi è perché il suo giudizio, visto il prestigio di cui giustamente Pilger gode, può esser dannoso in un momento assai delicato della storia del nostro mondo. Chi sarà presidente degli Stati uniti è affare che riguarda anche noi, direttamente. Sulla Rivista del manifesto di aprile appena uscita ho scritto molte pagine sull'argomento, esprimendo non tanto il mio parere, che in questo caso è irrilevante, ma quello della sinistra americana di cui ho incontrato nelle scorse settimane un gran numero di esponenti: intellettuali, sindacalisti, militanti dei movimenti per la pace e antiglobal. E dopo aver partecipato alla annuale conferenza dei Socialist Scholars cui prende parte un migliaio di persone appartenenti a più o meno tutte le formazioni della sinistra che c'è e delle riviste che esse editano; e dove delle prossime presidenziali si è ovviamente molto parlato. Non ne riferirò nuovamente qui ma vorrei avvertire che, salvo qualche rarissima eccezione, tutti hanno adottato lo slogan «ABB», Anyone But Bush. Anche coloro - e sono moltissimi - che l'altra volta a votare nemmeno c'erano andati, o avevano scelto il candidato indipendente e verde Ralph Nader. Di cui pochi si aspettavano la ripresentazione, dopo quanto era accaduto nel 2000 (la sconfitta di Gore per pochi voti ) e soprattutto dopo il 2000 (la tragica esperienza della presidenza Bush), una scelta che ha provocato sconcerto e che non hanno mancato di condannare. Con affetto e rispetto, perché a Ralph Nader tutti riconoscono il grande ruolo giocato nell'aver sfidato l'establihment repubblicano e democratico, introducendo nella politica americana temi prima tabù, ma contemporaneamente avvertendolo, come ha fatto per esempio The Nation, il più antico e autorevole settimanale della sinistra americana, del cui corpo proprio Nader ha sempre fatto parte, che «Ralph, questo è l'anno sbagliato per candidarsi». «Questa volta non possiamo permetterci di rischiare. La devastazione sociale che ha investito in particolare la comunità afro e latina non ce lo consente», ha riassunto Manning Marble, uno dei più autorevoli intellettuali neri, anche lui ex votante di Nader, nelle sue conclusioni alla conferenza dei Socialist Scholars. Bush, insomma, non è solo un presidente di destra, è un estremista pericoloso. Come Berlusconi, ma molto di più, perché un presidente americano concentra nelle sue mani un così spropositato potere da decidere per il futuro di tutto il mondo, noi compresi.

Contrariamente a quanto dice Pilger nessuno, almeno a sinistra, è caduto vittima del mito Kerry. E nessuno perde tempo più di tanto a elencare le malefatte imperialiste o i meriti del candidato democratico. Perché si dà per scontato che egli è certamente interno alla cultura dominante del paese, che peraltro - sarebbe bene ricordarlo - permea una grande fetta della società americana per ragioni storiche antiche e profonde: l'idea dell'eccezionalismo americano, vale a dire la convinzione della superiorità del modello di democrazia offerto dagli Stati uniti cui sarebbe stata conferita la missione di portare nel mondo il messaggio di questa «nuova Gerusalemme», un'idea radicata nelle coscienze che portano tuttora l'impronta del messianismo delle origini, quello delle missioni protestanti che li fondarono in opposizione alla vecchia corrotta e reazionaria Europa; e che poi è stato alimentato dall'isolamento geografico, dall'autarchia culturale, ed è diventato temibile via via che aumentava la forza militare ed economica del paese. Di qui viene il fondamentalismo che giustamente Pilger accusa, quello di cui scrive Chalmers Johnson nel suo ultimo libro The sorrows of Empire che egli cita per denunciare la sovrapposizione «idealistica, sentimentale e astorica della superiorità mondiale americana». Accentuata da Woodrow Wilson, ma parte del dna americano, anche di quello dei nostri migliori amici, che tutt'al più polemizzano contro il tradimento della missione.

Il riconoscimento delle diversità non è di casa in America. Di questa cultura tuttavia le espressioni politiche sono diverse e Kerry non è delle peggiori. Kerry, è vero, ha votato per la guerra all'Iraq e anche il Patriot Act (un testo di pagine e pagine che Bush sottomise pochi giorni dopo l'11 settembre al congresso che le approvò all'unanimità sotto choc; senza nemmeno leggerle, confessano ora molti dei suoi membri). E però ora ha votato contro il rifinanziamento (87 miliardi di dollari) della presenza americana in Iraq (meglio del triciclo!, con cui invece condivide l'opposizione a Chavez) e quando si va a guardare il suo comportamento in 19 anni di attività parlamentare si scopre che il futuro candidato democratico ha in assoluto il punteggio più alto nella statistica stabilita dagli «osservatori» per quanto riguarda le sue scelte di voto in merito alle tematiche liberal: aborto, pena di morte, leggi prosindacato, intervento pubblico a correzione del mercato, welfare, politica internazionale. Ma il punto non è decidere quanto Kerry sia bravo. Lo è poco, d'accordo. Il punto è che nel corso di questi mesi di campagna elettorale si è sviluppato un fenomeno nel paese di un certo interesse: una ripoliticizzazione e rimobilitazione di una parte dello schieramento democratico a partire da posizioni di netta polemica contro Bush, la sua guerra e la sua politica sociale. Ad animarla è stata il fenomeno Dean, l'ex governatore del Vermont sostenuto dal sito www.moveon.org, che ha avuto il coraggio di gridare al re nudo e di liberare il campo dai ricatti patriottardi che avevano a tutti cucito le bocche. A beneficiare di questo processo è stato Kerry e non Dean perché ha prevalso un riflesso moderato e prudente, ma Kerry, per imporsi, ha dovuto cavalcare il processo che ha a sua volta cavalcato lui.

Dall'inizio della campagna elettorale ad oggi il grigio senatore dell'èlite bostoniana è risultato cambiato e in meglio. E così si sono moltiplicati gli attivisti, reclutati persino negli ambienti rock e punk, segno di un interessamento politico delle nuove generazioni che non si vedeva da anni e che non può che essere un dato assai positivo. Che si battano contro la guerra, contro le leggi repressive e per il welfare, sia pure nell'ambito di un programma presidenziale contraddittorio e spesso ambiguo, a me sembra un bene. Anche i sindacati (indipendenti e non) lo riconoscono e a questo proposito vorrei ricordare a Pilger che sono assai lontani i tempi in cui la Afl-Cio era considerata un braccio della Cia. Nel bene e nel male: oggi il sindacato non conta quasi più niente in America, la sua rappresentanza è scesa al 12 % della forza lavoro, ma solo l'8,2 nel settore privato. Potremmo dire che forse è anche per questo che è stato possibile l'avvento alla presidenza di un democratico di sinistra come Sweeney, che ha poco potere ma ha cercato di usarlo per mettere in contatto il vecchio sindacato con i nuovi movimenti, da Seattle in poi. E che, a differenza di quanto accade per il Vietnam, è oggi parte dello schieramento antiguerra.

Non vorrei seguire Pilger nemmeno nella sbrigativa liquidazione di quel che in America va sotto il nome complessivo di sindrome del Vietnam. Tornata ora alla ribalta in un misto di sentimenti: anche coloro che quella guerra la combatterono senza denunciarla, ma ne uscirono con la consapevolezza di esser stati imbrogliati, vivono con riacceso rancore le bugie di Bush sull'Iraq.

Se a grande maggioranza si sono andati ad iscrivere alle liste democratiche è perché rivedono nel presidente in carica il responsabile di un altro fatale errore, analogo a quello che fu commesso allora da Nixon ma anche dal democratico Johnson (come peraltro riconosce dopo 25 anni persino McNamara nel documentario Fog of war che ha vinto l'ultimo Oscar). È proprio questo clima che ha del resto impedito che facesse breccia la campagna allestita dai repubblicani quando hanno reso pubblica la foto del giovane Kerry accanto a Jane Fonda in una manifestazione pacifista dei primi anni `70. La sua frase: «Come potete chiedere ad un uomo di essere l'ultimo a morire per uno sbaglio?» è diventata popolare.

In conclusione vorrei riprendere il giudizio della più grossa organizzazione pacifista, «Peace and justice coalition»: non si tratta di giudicare quanto Kerry sia meglio di Bush, quel che conta è che un presidente democratico è sempre più sensibile ai movimenti.

Se vince Bush i nostri militanti tornano tutti a casa, se vince Kerry continueranno a lottare perché sanno che potranno avere qualche influenza.

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