VISIONI

Se il digitale ha un'anima tutta black

DE FRANCESCHI LEONARDO,ITALIA/MILANO

Dopo tre lungometraggi, tra cui Testament (presentato a Cannes e premiato a Riminicinema) e Speak Like a Child (presentato a Venezia), e svariati documentari realizzati per la Bbc e per Channel Four, John Akomfrah ha presentato il suo nuovo lavoro a Milano in anteprima mondiale, in occasione del 14° Festival del cinema africano, d'Asia e d'America Latina. Interessato fin dai tempi del Black Audio Film Collective, nei primi anni `80, a un lavoro di ricerca sui mezzi audiovisivi, anche in questo «documentario musicale» dal titolo emblematico di Urban Soul il cineasta ghanese, ma londinese di adozione, riesce a far convergere ricerca estetica e richiamo popolare, costruendo una sorta di storia virtuale del rhythm & blues, dagli anni `70 ad oggi. Un lavoro allo stesso tempo semplice e complesso, che sembra continuare idealmente il discorso dialettico tra sguardo glamour ed estetica militante sulla nascita e l'exploitation della cultura afroamericana, esploso sugli schermi milanesi con l'ultimo potente film di Mario Van Peebles, Baadasssss!, dedicato all'esperienza del padre Melvin e presentato nella serata d'apertura del festival. Preso tra un'intervista e l'altra, incontriamo Akomfrah per parlare del suo film e di che cosa significhi oggi la sua scelta di un cinema digitale.

Il rhythm & blues, un genere musicale un tempo disprezzato per la sua mancanza di sostanza, è divenuto una delle forme più amate di pop music nel mondo. Come è nata l'idea del film?

Ho proposto questo progetto alla Bbc tre anni fa, e da allora ha subìto molte trasformazioni: all'inizio dovevano essere tre film di un'ora ciascuno, poi siamo arrivati alla durata complessiva di 90'. Ora diciamo che è un ibrido tra l'impostazione iniziale più intellettuale e il formato più popolare e accessibile al grande pubblico richiesto dalla Bbc. Ma l'idea centrale e lo spirito del film non sono cambiati: il rhythm & blues come sintomo dell'evoluzione della cultura black dai margini al centro del sistema mediatico americano. Nella continuità culturale della diaspora si può rintracciare una tendenza sotterranea verso un «modernismo popolare», rappresentato in maniera esemplare da Louis Armstrong: la capacità di trasformare il linguaggio che si usa senza per questo diventare necessariamente impopolari, al punto che la popolarità finisce quasi per eclissare il livello dell'innovazione musicale. Ed è ciò che avviene anche con il r&b. Inoltre, con il crollo delle vecchie ideologie e sovrastrutture culturali, la musica black sembra rispondere alla necessità delle minoranze di mantenere la propria identità ma nello tesso tempo di «dividersi la torta», di avere la propria fetta di successo.

Uno degli aspetti interessanti del film è che non esprimi un giudizio preciso sul fatto che la musica black sia ormai diventata, tramite il rhythm & blues, parte integrante dell'american dream.

Ho voluto affrontare il soggetto in maniera seria, quasi scientifica, contro il pregiudizio per cui se qualcosa è popolare deve essere per forza superficiale. Inoltre fin dagli inizi l'identità culturale afroamericana o della diaspora ha avuto due livelli paralleli e complementari: una cultura di protesta e una di adattamento, con continue negoziazioni tra le due. In fondo anche Martin Luther King è stato una figura di adattamento, nel senso positivo del termine. I neri d'America hanno lottato per essere rispettati ed avere gli stessi diritti di tutti gli esseri umani, ma ora vogliono essere anche semplicemente americani.

Attraverso la mescolanza di materiali audiovisivi diversi (interviste, fotografie, materiali d'archivio, videoclip, testi scritti) incastonati nell'architettura stessa della città, ricostruisci una città ideale del r&b e insieme crei un ipertesto. Una struttura molto semplice e di superficie ma che può essere attraversata e letta in maniera complessa e stratificata.

È stata subito chiara per me la necessità di avere una molteplicità di punti di vista e di materiali, accostando differenti presenze iconiche nella stessa inquadratura, ma anche mescolando diversi formati: contaminare la pulizia delle riprese o delle manipolazioni digitali con la sporchezza del super 8 o del 16mm. E poi ho inserito i testi, perché volevo evitare a tutti i costi la presenza di una voce di commento, che finisce sempre per imporre un unico punto di vista. A proposito dell'ipertesto: ormai è da tempo che lavoriamo con il digitale, per cui penso che si possa a parlare, più che di un'estetica, di un'epistemologia: non un cinema digitale, ma un'epistemologia digitale. L'effetto più evidente del digitale dal punto di vista estetico è che si è perso il senso dell'ordine e della gerarchia dei livelli, e questo ha conseguenze sia positive che negative. Il vantaggio è stato quello di liberarsi finalmente dalla tirannia del tempo, simbolicamente ma anche in senso letterale: lo spazio (reale o virtuale) lo ha sostituito. Un vantaggio che può capovolgersi in svantaggio, dal momento che non esiste più una priorità, una gerarchia di valori formali: siamo nella non-linerità assoluta sia in fase di realizzazione che in postproduzione. Il rischio è dunque quello di perdersi totalmente in quello che Roland Barthes ha definito un disorientamento verticale...

Dopo «Digitopia» (2001) come è cambiato il tuo approccio al digitale?

Digitopia è stato l'inizio della mia riflessione sulle nuove tecnologie applicate all'estetica cinematografica. Voglio continuare a sperimentare nuove forme, ma senza lasciarmi incastrare troppo in una formula preconfezionata come per Dogma: il digitale non deve diventare un semplice esercizio estetico. Viviamo in un mondo sempre più digitale, virtuale, ma continuiamo ad essere analogici... L'artista deve trovare volta per volta la propria forma, la forma più giusta, senza codificarla una volta per tutte.

Ma non c'è il rischio che, nell'era della globalizzazione dei media, il tuo lavoro, proprio perché tecnologico, venga cannibalizzato, digerito e rigettato dal sistema audiovisivo mondiale?

La soluzione sta nel non codificare la propria pratica. Il mio impegno politico si esprime appunto nel non rigettare quelli che per me sono valori culturali e politici che rimangono centrali: agevolare l'accesso e la legittimità culturale e sociale della minoranza a cui appartengo. Sono passato al digitale proprio perché volevo di più, non perché mi sono adattato all'estetica dominante. Su questo non esistono compromessi. Sono rimasto essenzialmente un umanista: la parola techne evoca etimologicamente solo un mezzo di conoscenza; la sfida è quella di continuare a pensare che siamo noi la tecnologia, senza cadere nel determinismo.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it