«Cari amici, vi scrivo questa lettera alla luce di una candela, nella notte fra il 25 e il 26 di marzo, mentre gli aerei della Nato stanno bombardando la periferia di Belgrado.La guerra è venuta nel mio paese». Queste righe mi arrivarono fortunosamente giorni dopo, via Internet, e furono poi seguite da altre, accorate, scritte dai tanti compagni jugoslavi impegnati nella battaglia contro Milosevic e con cui eravamo da tempo in contatto perché attivi nel movimento della pace europeo. A mandarmi questa prima missiva era Milos Nicolic, vecchio partigiano e fra i primi a denunciare l'insorgere del nazionalismo serbo. Milos è inorridito e stupefatto per l'intervento Nato e avverte che può avere gravi conseguenze: al di là del dato umanitario, l'introduzione nella politica internazionale di una pratica che conferisce al paese più forte il ruolo di poliziotto mondiale; l'interruzione del processo che avrebbe potuto portare ad una soluzione pacifica in Kosovo, per l' incoraggiamento offerto al nazionalismo, serbo e albanese; la riduzione di spazi d'azione per le forze democratiche non-nazionaliste. La lettera termina con parole molto amare: «Ci sentiamo soli e infelici, non sentiamo la vostra voce. Pensate forse che non abbiamo ragione a denunciare i bombardamenti della Nato?». La voce dei pacifisti, moltissimi italiani, che nel Kosovo, come prima in Bosnia, sono stati in campo per aiutare la pace come potevano, i compagni di Belgrado l'hanno poi sentita. Ma lo sconcerto è perché quei bombardamenti erano stati decisi anche da governi che avevano ritenuto amici.
Ho preferito lasciare la parola a Milos Nicolic nel commentare questo primo quinquennale dall'inizio dei 78 giorni di bombardamenti. E' più autentica, più credibile. A cinque anni di distanza, dopo che moltissimi documenti dell'epoca sono stati resi pubblici, e la persecuzione dei serbi in Kosovo non si è mai interrotta (solo ora è diventata visibile), le sue previsioni appaiono ancora più fondate. Ma i grandi media non ne hanno mai dato conto, così come manipolarono al momento le notizie, in una misura tanto scandalosa che la stampa brezneviana era in confronto un esempio di sottigliezza. Perché mai tante scheggie di emozione - i profughi, la Bonino in battle dress che li soccorreva (solo gli albanesi, di quelli serbi - che alla fine sono risultati nei Balcani quasi un milione - sembra non abbia mai avuto contezza , i « nostri» soldati, naturalmente) - prive di qualsiasi contesto, sono state bombardate assieme all'uranio impoverito per generare confusione. E così si è parlato solo di aggressione dell'esercito jugoslavo contro i civili albanesi , senza mai dire che dal 1998 reparti armati dell'Uck entravano dai confini, albanese e macedone, nel paese, conquistando il controllo del 40% del territorio. Quella che inizia, dunque, è una vera guerra, orribile, certo, con tutte le sue rappresaglie ( da ambo le parti), ma una guerra. Tanto è vero che i tribunali tedeschi respingono le richieste di asilo politico dei profughi albanesi affermando che non c'è, in Jugoslavia, un attacco alla minoranza in quanto tale. Poi c'è l'accordo del 15 ottobre fra Milosevic e Holbrooke, in base al quale 10.000 poliziotti serbi vengono ritirati, viene inviata una missione dell'Osce e annunciata una nuova «autonomia». Che tale soluzione sia stata rifiutata da tutti i gruppi albanesi, che in realtà puntavano a creare un altro stato, si dice poco o nulla.
Infine il negoziato di Rambouillet che rappresenta lo scandalo maggiore: la stampa internazionale accreditata a seguire i lavori nel castello alla periferia di Parigi, ma anche i parlamenti vengono tenuti all'oscuro di quella che in seguito sarà chiamata la «clausola killer», l'annesso all'accordo che spiega perché Belgrado è costretta a rifiutare: perché vi si dispone l'occupazione di fatto delle truppe Nato non del solo Kosovo ma di tutta la Repubblica federale. L'opinione pubblica non ne è informata, così come del fatto che inopinatamente alla vigilia sono stati ritirati gli osservatori dell'Osce (una decisione contro cui Milosevic protesta invano) dopo la poco credibile strage di Racak. E' a questo punto che, premeditatamente e senza l'avallo del Consiglio di sicurezza dell'Onu, la Nato decide di aggredire la Jugoslavia. Sembra che D'Alema - lo dicono documenti Usa - avesse avvertito Clinton che così si rischiava un drammatico aumento dei profughi. Una preveggenza senza conseguenze e inghiottita dalla storia.
Il vero esodo avviene infatti quando iniziano i bombardamenti. Spenti ormai i riflettori tv sulla regione, è chiaro che i profughi serbi sono quelli che non torneranno più. E ora continuano.
A guerra «conclusa» gli Stati uniti hanno portato a casa un saldo controllo dei Balcani (basi, corridoi, oleodotti ) e l'emarginazione degli europei che, solo ove il problema del nuovo assetto della zona fosse restato sul terreno politico avrebbero potuto avere un ruolo, fatalmente perduto quando è entrata in scena la forza militare.