5 ANNI DOPO

In Kosovo il battesimo del fuoco

MORTELLARO ISIDORO D.,KOSOVO/SERBIA

Èintinto in un veleno assai urticante il coltello che Robert Kagan rigira nel fianco degli Europei, quando nel suo Paradiso e potere, piccola summa del pensiero neoconservatore, constata, rispetto all' ordine mondiale del XXI secolo, che «gli Americani hanno preparato la cena e gli Europei lavato i piatti». Il riferimento è largo, al ciclo di guerre inaugurato dal primo intervento in Iraq, all'indomani della caduta del Muro. Ma si fa estremamente pungente quando sottolinea lo choc del Vecchio Continente scopertosi impotente non più solo nel mondo, nei conflitti da globalizzazione, ma in casa propria, di fronte al ritorno della guerra nei sempiterni Balcani. Allora l'aiuto, più o meno spontaneo, dell'«amico americano» si rese necessario. Ma si rivelò straordinariamente costoso, specie nel suo epilogo di «guerra umanitaria», «a soccorso» del Kosovo. Non già solo per il carico di distruzioni di un assalto che, con l'intelligenza delle sue bombe e il celestino delle sue volute, seppe risparmiare solo la vita degli assalitori: «5.000 a zero», fu l'asimmetrico calcolo finale delle perdite in battaglia, a totale carico dei serbi. Un conto truccato: l'«uranio impoverito», sparso con larghezza di mezzi e cinismo, si sarebbe vendicato a distanza, ma nel silenzio di una contabilità occultata accuratamente, tanto in Occidente quanto soprattutto nei Balcani e lungo tutto l'avvelenato Danubio. Con la «guerra celeste», in realtà, un colpo devastante fu allora portato al diritto internazionale e ad ogni Carta ereditata dalla II guerra mondiale e nata nel calco dell'Onu, nel ripudio della guerra come strumento di politica internazionale. In quel battesimo del fuoco la Nato giunse a strappare persino i propri trattati istitutivi, rigidamente attestati sul mutuo e difensivo soccorso. Nel vertice di Washington, con cui nel pieno dei bombardamenti celebrò il 50mo anniversario della propria costituzione, seppe fare di necessità virtù e reinventarsi come strumento di intervento globale in ogni area di crisi potenzialmente dannosa per l'Occidente: una mutazione complessiva di scopi e raggio d'azione portata a termine in modalità accuratamente schermate dall'intervento di popoli e Parlamenti, ad emblematica sottolineatura delle regole e forme oligarchiche che presiedono allo sviluppo del nuovo mondo globalizzato.

Il centro-sinistra del tempo, dell'era Clinton, allora egemone di qua e di là d'Atlantico, accompagnò gli eventi con peana all'intervento umanitario, strumento elettivo di una globalizzazione dal volto umano, vindice dei diritti calpestati o concultati da tiranni e rogue states. L'Italia del governo D'Alema scopriva le virtù di un nuovo atlantismo. Berlusconi si sarebbe poi incamminato sicuro su quelle orme per azzardi ben più perigliosi e catastrofici.

Gli Europei ne ricavarono una lezione indimenticabile. Fioccavano ancora le bombe, quando il 3 giugno 1999 l'Europa, al Consiglio europeo di Colonia, era costretta a prendere tutte le misure di quella «guerra umanitaria». Si scopriva storta e impotente: priva non solo di una politica o di un esercito europei, ma financo di una Carta dei diritti. Si affannò a porre rimedio, ma tra scelte e segnali non propriamente confortanti. Non ci si impegnava sul futuro valore della Carta dei diritti e a rammentare entro quali atlantici confini si sarebbe mossa la erigenda Pesc - Politica estera e di sicurezza comune - se ne individuava il futuro responsabile nella persona di Xavier Solana, all'epoca ancora segretario generale dell'Alleanza atlantica. In sparuta e negletta minoranza, il greco Simitis e l'italiano D'Alema avrebbero invano protestato rispetto ad un candidato utile sicuramente a rimarcare continuità e non certo innovazione.

Anche di là dell'Atlantico maturavano riflessioni nuove. Nelle retrovie la candidatura di Bush II alle prossime presidenziali era già a buon punto e la sua squadra di futuri consiglieri - i Vulcans - al lavoro. Condoleezza Rice affidò al numero di Foreign Affairs che inaugurava il 2000 una puntuta riflessione sulla presidenza Clinton e sulla guerra del Kosovo. Basta con il multilateralismo della war by committees: la guerra gestita da comitati politici, in cui la potenza americana viene mortificata dalla supponenza degli alleati. Basta con marines dimidiati a boy-scouts dell'emergenza umanitaria. Gli Usa sappiano esercitare il ruolo richiesto dallo status di iperpotenza: decisore ultimo sulle questioni della pace e della guerra. Ad altri, alle organizzazioni internazionali e regionali vanno delegate emergenze umanitarie e nation-building. Concetti tutti valorizzati appieno da Bush II nel mondo e nel tempo feriti dall'11 settembre.

Dalle colonne di Foreign Affairs di marzo-aprile, Robert Kagan torna ora sui fatti del Kosovo. Rammenta agli Europei che allora essi permisero e quasi invocarono quanto poi negato per l'Iraq da alcuni di essi: accantonamento dell'Onu e violazione del principio di sovranità nazionale. Chiede perciò di provare a sanare la contraddizione per il futuro, pena una crisi di legittimità dell'Occidente tutto e dei principi su cui si è finora fondata la sua unità interna e nel mondo. Sullo sfondo si intravedono le partite strategiche già approntate per i futuri appuntamenti del G7-G8 e della Nato: la proposta americana di un'iniziativa occidentale per un Grande Medio Oriente e l'ennesimo ridisegno strategico dell'Alleanza atlantica. Nulla di nuovo, se non fosse per i tanti segnali di risposta che da qualche tempo le varie capitali europee lanciano, ammorbidendo toni e sostanza del contenzioso maturato in Iraq. Spicca per chiarezza lo scritto con cui dal Corriere della Sera del 10 marzo Marta Dassù - direttrice di «Aspenia» e stella fissa del firmamento di intelligenze che, dal Cespi alla Fondazione Italianieuropei, alimenta la riflessione strategica del centrosinistra italiano - fa il punto sullo stato delle relazioni transatlantiche e internazionali dopo il Kosovo e l'Iraq. Nel XXI secolo ci si avvia a relativizzare il principio base del diritto internazionale - la non interferenza negli affari interni di Stati sovrani - a favore di un concetto di sovranità responsabile, chiamata a rispondere di violazioni dei diritti umani o di possibili minacce all'ordine internazionale. Meglio perciò discutere «un aggiornamento delle regole», piuttosto che continuare - uniti o divisi - a «collezionare eccezioni alle regole vecchie». Risposta più chiara non poteva venire alla tesi neoconservatrice sulla «forza che fa il diritto» quando il vecchio mondo tramonta. O, magari, viene spinto nella fossa.

Il pacifismo che prova anch'esso a contornare il nuovo secolo è avvertito: se non si guadagnano, specie dopo la Spagna, nuove posizioni di forza, di qua e di là dell'Atlantico già si apprestano le misure per trascinare anche un'eventuale presidenza Kerry nell'onda lunga avviata cinque anni fa in Kosovo e ingrossata dalla cosiddetta guerra al terrorismo. Indigesta rimarrà solo la guerra. Come cancrena nei Balcani, in Iraq o nei mille fallimenti del peace-making, continua a negarsi alla bacchetta magica dei suoi apprendisti stregoni.



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