Era il 1991: l'altra guerra dell'Iraq, un'altra occasione di rottura nella sinistra. Più grave, perché il consistente voto di dissenso che divise in Parlamento il Pci accelerò la successiva separazione dei suoi eredi. La scelta era allora fra chiedere solo il cessate il fuoco o anche il ritiro del contingente navale italiano. Non si trattava di una questione tattica: la posta in gioco era strategica, significava la dissociazione o meno dalla politica Usa nella vicenda irachena ma, più in generale, dal progetto di lungo periodo già allora visibile anche se solo oggi pienamente dispiegato: la definitiva marginalizzazione dell'Onu e il disegno di mettere sotto controllo americano l'intera regione petrolifera. Le analogie con la vicenda che si svolge in questi giorni in parlamento sono evidenti, la posta in gioco la stessa. Ora, tuttavia, con non poche aggravanti. Innanzitutto la totale assenza del «senno di poi» della maggioranza Ds, che i fatti intervenuti in questo decennio (Afghanistan, basi militari in tutte le repubbliche ex sovietiche, ininterrotti bombardamenti sull'Iraq, oltre agli abusi più recenti e locali) dovrebbe esserle venuto. Inoltre nel `90-91 c'era pur sempre - più o meno valida - la giustificazione dell'invasione irachena del Kuwait (e infatti la coalizione che attaccò Baghdad era amplissima); la minaccia che Saddam faceva pesare sul mondo intero era anche allora risibile (il Pil del paese era la metà di quello del Belgio), ma comunque l'economia e l'apparato militare non erano allo stremo come ora, dopo più di dieci anni di micidiale embargo, di bombardamenti, di distruzioni. Il generale Schwarzkopf si fermò a ogni buon conto ai confini del paese, e, sebbene a malincuore, Bush senior fu costretto a non procedere al suo annientamento come accaduto ora, a riprova che l'obiettivo non era la liberazione del popolo iracheno (in seno al quale nessun soggetto credibile si è levato a chiedere questo tipo di aiuto), ma l'occupazione di una zona economicamente e politicamente strategica. Ma l'aggravante forse più seria sta nel fatto che nel frattempo la militarizzazione crescente dei rapporti internazionali, con tutti i riflessi che essa ha avuto a livello domestico, stanno inducendo una erosione della democrazia tanto grave da far riflettere sull'ipotesi che la fase del capitalismo democratico, quale l'abbiamo conosciuto dal '45 in poi, sia forse giunta al termine. La guerra preventiva e infinita, insomma, appare oggi ben più chiaramente connessa al processo di involuzione autoritaria che tutti ci minaccia.
Il voto di domani non serve a pagare gli stipendi ai carabinieri, la cui presenza in Iraq non ha peraltro alcuna utilità militare o umanitaria. Serve a accettare, magari con rassegnazione, o a rifiutare, tutte queste implicazioni della «pax americana» (che, come dice Walden Bello, se un antico protagonista di quella «romana» dovesse rinascere per vederla, resterebbe inorridito). In second'ordine serve come sappiamo agli affari. Per credere, guardare all'interessante convegno promosso nei giorni scorsi dall'Istituto italiano per il commercio estero dal titolo «prospettive di investimento in Iraq», relatore il responsabile americano per le privatizzazioni nel paese. Una differenza in meglio, molto meglio, tuttavia da allora c'è: nel `90-'91 facemmo molta fatica a mobilitare la gente, questa volta ci prepariamo a un immenso 20 marzo, un anno dopo la più grande e mondiale manifestazione pacifista di tutte le epoche. Non è poco.