CULTURA

Rahel, un'intima sovversione

SIMONE ANNA,ITALIA

Senza la possibilità del «diritto ad avere diritti» nessun individuo, nessuna irriducibile singolarità può contribuire al dispiegamento della forza desiderante di una società. E viceversa nessuna società può riuscire a costruire se stessa basandosi sulla negazione della vita del singolo senza pagare il prezzo troppo alto della sua stessa distruzione. Hannah Arendt sembra dirci innanzitutto questo nel suo memorabile ed intenso libro di formazione scritto tra il 1933 ed il 1938, appena riedito dal Saggiatore, dopo un lungo periodo di assenza dalle librerie (Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, a cura di Lea Ritter Santini e con una postfazione di Federica Sossi, pp. 290, euro 9,20). Il molteplice gioco delle «possibilità» contenute in ogni singola vita è, contemporaneamente, il desiderio ed il dramma di Rahel, perché lei desidera, innanzitutto, «l'impossibile» per sé e per il suo tempo: la Prussia tra l'età dei Lumi e i primi vagiti romantici e nazionalisti. Rahel è una donna che desidera essere amata, pensa ingenuamente che l'amore possa salvarla da tutto il resto ma dovrà presto fare i conti con ciò che comporta «l'essere abbandonati». Lei, però, sa anche di essere ebrea in una società sempre più prossima ad un antisemitismo diffuso e per questo desidererà di non esserlo più. Rahel, quindi, imboccherà l'unica strada che conosce per liberarsi dalla pesantezza del suo stigma, la via «dell'assimilazione», ma non ci riuscirà perché alla fine odierà le sue tradizioni esattamente tanto quanto odierà lo spirito borghese dei parvenu del primo ottocento. Lei, Rahel, è una donna che impara da sola a «sovvertire» il dolore «per la perdita della bellezza» o per la perdita di Don Raphael Urquijo (un bell'uomo, segretario di legazione presso l'ambasciata spagnola da cui sarà abbandonata), utilizzando il gioco salvifico della ri-costruzione e della ri-composizione degli elementi della propria storia, il gioco «folle» dell'auto-biografia che può consentire, «anche nella disperazione», di cercare un senso in ciò che deve ancora accadere. Rahel è una donna che, dopo aver imparato a «costruire una storia raccontabile», riscopre il sole e la solidarietà con gli altri esseri umani e decide di esibirsi, di rappresentarsi per non restare sola, per imparare «il gioco sociale dell'ambiguità dei salotti». Ma lo fa solo per non morire, per non restare schiacciata dall'insopportabile peso della sua identità perchè «vivere è molto, vivere è tutto» anche se la sua è una nascita «infame». Lei, a differenza di altre sue amiche «battezzate», per re-incontrare la vita, il fuori, deve fare i conti con il suo «essere ebrea» sempre e comunque ed è per questo che a volte fugge e va a Parigi. Non fugge dalla sua storia ma da uno stigma di cui non è responsabile per apprezzare la libertà dell'essere «stranieri» o semplicemente per sentirsi altra da ciò che la società le chiede di essere. Lei che frequenta Goethe e Fichte restando sempre legata all'illuminismo, al desiderio emancipazionista; lei, che riesce a capire perfettamente le pieghe reazionarie e antisemite del romanticismo nazionalista, non si darà pace, mai, almeno sino a che non capirà che la società può solo essere crudele a differenza della natura che invece resta benigna, anche se sempre «estranea». Lei, che comunque «non ha nessuna colpa», neppure quando per «diventare un essere normale», per «conquistare l'uguaglianza dei diritti sociali», finisce per venerare monarchi virtuosi e principi con cultura letteraria. Lei, Rahel, è una donna che, alla fine, deciderà di sposare un uomo molto più giovane, vuoto ed insignificante, prenderà il suo cognome e cercherà, ancora, di uscire dalla sua povertà e dal suo ebraismo ma il gioco della rappresentazione e dei parvenus non riuscirà mai ad attraversarla veramente. E qui torna il dolore in tutta la sua potenza salvifica. Così come Rahel scoprirà il gioco della ri-costruzione dei frammenti autobiografici della propria vita per uscire dal dolore, per «sovvertirlo», riuscirà a fare la parte del «folle» nella società dei parvenus e la sua «nascita infame» diverrà, improvvisamente, la sua forma di «sovversione» sociale. Di giorno riesce a fare una vita normale ma di notte i suoi sogni riusciranno a sconvolgerla e a farle vedere la vita da un altro punto di vista. Se il dolore personale si può elaborare ricostruendo la propria storia, il dolore di essere nata ebrea in una società antisemita le farà venir voglia di essere paria, o meglio, le fornirà una consapevolezza: divenire paria non è un movimento reattivo, lo è solo per la società borghese che non può capire perché lei adesso, oltre ad essere donna, ebrea, povera e paria è anche un po' più libera. Solo così Rahel può mettere insieme i «risultati» del lavoro che ha fatto con se stessa con il lavoro che lei fa contro una società che non la riguarda perché non è in grado di comprendere e di valorizzare la sua irriducibile singolarità. Non esce «dall'impossibile» anche e soprattutto perché lei ha vissuto gran parte della sua vita cercando di trasformare tutto in «possibile». La libertà, alla fine, la troverà nelle «realtà vere», nei bambini, nella bellezza, nella musica, nel tempo che fa. Ma, anche se Rahel riscopre la bellezza delle cose semplici, del sole, non riuscirà mai a cancellare quell'ombra infame dell'ebraismo. E' adulta, ormai, quando capisce con nettezza che dall'ebraismo non si esce ed è per questo che non sono né Goethe, né Fichte, né la sua amica Paulina, né il Varnhagen che ha sposato, né il ricordo degli altri amori a salvare la sua anima e la sua storia di donna da quella «nascita infame». Come scrive la Arendt alla fine del libro è Heine a salvarla perché lui, più di altri, «giurava di impegnarsi con entusiasmo per la causa degli ebrei e per l'uguaglianza dei loro diritti civili». Ma qui, in questa storia di una donna raccontata da una donna, i diritti non sono solo legati al loro fondamento giuridico e politico, sono molto di più, sono le tante vite e le tante storie private di Rahel. Come sembra volerci dire anche Federica Sossi nella sua intensa postfazione al libro, sono queste lotte «intime» a sovvertire la società che non vuole riconoscere le singolarità, più che il «dire eroico» di Heine, perché il gioco del raccontare è sempre legato alla fuoriuscita dall'essenzialismo di cui è intrisa qualsiasi identità collettiva di tipo assimilante e non il contrario.



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