Caro Manifesto, la lettera di Marina Sereni mi è sembrata rivolta a tutto il movimento per la pace che aveva chiesto un voto contrario al decreto di proroga della missione militare in Iraq (e di altre missioni militari all'estero). Mi permetto quindi di interloquire. Non condivido anatemi e toni forti quando si discute di temi che riguardano la vita di milioni di persone, ma lo strappo con le aspettative di tanta parte della società civile italiana resta. Non sono in ballo elezioni, né permessi di partecipare a manifestazioni, ma, mi sembra, la stessa futura politica estera del nostro paese.
Non credo che il rifiuto del Governo di concedere il voto separato sia il vero punto. Sarebbe bastato, per segnalare il vostro accordo alla proroga delle altre missioni militari, presentare un ordine del giorno (ma le condividete davvero tutte? davvero la missione in Afghanistan è tanto diversa da quella in Iraq?). Ma non credo che questa sia la sostanza. Non sfugge a nessuno che il significato politico del voto risiedeva nella decisione che il Senato avrebbe preso sull'Iraq. E non sfugge a nessuno che la decisione di non partecipare discende da una incertezza che permane nel centro sinistra sulle caratteristiche della futura politica estera.
La politica estera degli ultimi anni ha sperperato quel patrimonio di credibilità che l'Italia aveva nel mondo arabo e appiattito il nostro paese sulle peggiori politiche di potenza degli Usa, allontanandolo non solo da altri paesi europei ma, soprattutto dalla maggioranza dei popoli del pianeta. Nello stesso tempo sta prendendo piede, in questo contesto, una non tanto celata voglia da potenza neocoloniale, con annesso affarismo e paternalismo «democratico», di cui la proiezione militare in Iraq, nelle terre del petrolio dell'Eni, è solo una conseguenza.
La politica italiana in Iraq infatti riguarda anche la partecipazione alla «amministrazione provvisoria» del governatore Bremer, che rende il nostro paese partecipe di tutte le politiche in corso in Iraq: la violazione delle Convenzioni di Ginevra, la privatizzazione illegale, l'abolizione del diritto di famiglia, il trasferimento di poteri su basi non elettorali, ecc.
Questa scelta impedisce all'Italia di essere un attore credibile sulla scena internazionale nella ricerca di politiche di riequilibrio e di giustizia. E le impedisce anche, nello specifico, di sostenere quello che tutti dicono di volere: il ritorno della sovranità nelle mani della popolazione irachena e la fine della occupazione militare. Una Italia le cui istituzioni siano divise tra il Sì e il Nì non può avere la forza di rivendicare un diverso ruolo dell'Onu, né, in presenza di un blocco di fatto del Consiglio di Sicurezza, di prendere iniziative diplomatiche in questa direzione. Questa situazione non credo serva al popolo iracheno e al suo diritto di non essere precipitato dall'occupazione in una spirale di violenza.
A un «centro sinistra che vuole diventare governo» il movimento per la pace chiede un segnale forte che alluda ad una politica estera di netta discontinuità con le politiche fin qui seguite dai passati Governi.
* Presidente di Un ponte per...