Incontro fatale quello tra il pianista/compositore afroamericano Cecil Taylor (classe 1933) e l'Italian Instabile Orchestra. Per il singolo e per il collettivo c'è, alla base, l'esperienza fondante del free: Taylor ne fu - e ne è - uno degli artefici, un autentico costruttore di nuovo linguaggio sonoro, protagonista di un giro di boa nel jazz e nella musica del `900 senza ritorno (da più di 40 non si serve della notazione convenzionale); nell'Instabile dialogano almeno tre generazioni di musicisti d'avanguardia, dai freemen pionieri Mario Schiano e Renato Geremia fino ai giovani improvvisatori Lauro Rossi, Luca Calabrese e Alberto Mandarini. Incontro fatale, quindi, costruito con cura dai musicisti e dall'entourage dell'orchestra e concretizzatosi al Talos Festival di Ruvo di Puglia del settembre 2000, dopo che la formazione si era trionfalmente esibita a Chicago. La musica suonata a Ruvo si è trasformata in un denso album da poco pubblicato dall'etichetta tedesca Enja (distribuita in Italia dalla Egea), The Owner of the River Bank; il Cd ha anche una traccia video, una serie di foto e i testi in italiano delle documentate e problematiche note di copertina redatte da Marcello Lorrai. I 60 minuti di The Owner of the River Bank sono memorabili: rare restano, infatti, le collaborazioni di Cecil Taylor con formazioni ampie. Creato il rapporto a Ruvo, l'Italian Instabile Orchestra ha suonato con il pianista nel marzo 2002 a Parigi per Banlieues Bleues e nel settembre 2003 al festival di Sant'Anna Arresi. Sono jazzisti - secondo l'opinione diretta di Cecil Taylor - che can play, «asciutta espressione - spiega Lorrai - che gli è abituale quando deve esprimersi su musicisti di cui ha considerazione».
Le 7 tracce del Cd, che confluiscono l'una nell'altra senza troppe cesure, esprimono un universo sonoro marcatamente tayloriano arricchito, amplificato e caratterizzato dal contributo collettivo dell'Italian Instabile Orchestra. È una musica che ha un forte senso biologico, vitale, che fluisce oltre le forme ma diventa forma essa stessa; il pianoforte di Taylor - spesso rinforzato da quello di Umberto Petrin - è come il nucleo che crea delle correnti convettive le quali producono una musica magmatica che nel suo concretizzarsi ricorda l'aggregazione della materia. I pieni e i vuoti, le densità e le rarefazioni, le ondate e le colate orchestrali, lo sciabordare dei suoni evocano le forze della natura come quelle dell'inconscio. Qua e là emergono, nell'incedere sempre collettivo, alcune voci (il sax di Schiano, i tromboni di Schiaffini e Tramontana, i timpani di Vincenzo Mazzone, lo squillare della sezione trombe, gli archi...), alcuni frammenti melodici - inquietanti, lirici, fulminei - ma è il gruppo, guidato e ispirato dal pianista, che dà vita alla palpitante e policroma musica in un itinerario compositivo estemporaneo.
Leggere le mote di Marcello Lorrai è, a tal riguardo, illuminante: vengono ripercorsi i 6 giorni di prove con il pianista che, in modo maieutico, non impone quasi nulla ma costruisce e assembla con pazienza, coinvolge i musicisti e ottiene da essi un partecipazione emotiva profonda, frutto anche di spiazzamento e dubbio, problematica ricerca del senso di sé attraverso la musica. L'idea collettiva di Unity di Taylor ha alle spalle la storia degli head arrangements che, nel jazz, le big-band assimilavano a memoria e mutavano nel corso delle esecuzioni (famosi erano quelli delle band di Count Basie e Sun Ra). Il percorso del pianista è, peraltro, «il frutto di una scelta di tipo non autoritario nella musica. Che però, nella declinazione di Taylor, non va a scapitro di una leadership, di una responsabilità che il pianista assume in pieno: col risultato di una originale soluzione che si colloca fra la funzione tradizionale di direzione e esperienze di interrelazione improvvisativa paritetica, che prescindono da un ruolo di comando». Insomma, per dirla ancora con Lorrai, è una sorta di «direzione anarchica» quella del pianista che ha anche una sua dimensione iniziatica. C'è molta Africa in tutto questo procedere e si conferma l'interesse che il pianista ha sempre avuto per le culture della diaspora nera in America.
L'utopia libertaria del free e la valenza comunitaria delle culture africane trovano in The Owner of the River Bank una loro celebrazione compiuta quanto aperta, una radice viva per una musica della contemporaneità.