Un mio amico giudice mi ha raccontato una storia. Immagina - mi ha detto - che un novello Candido si metta a studiare le statistiche della nostra popolazione carceraria dal 1860 in qua. Constaterebbe che la composizione sociale dei detenuti è pressoché identica: oggi come allora in galera ci sono per lo più persone a bassa scolarizzazione e con un basso livello di reddito, mentre pochissimi sono i «colletti bianchi». E concluderebbe che l'italica classe dirigente - politici, burocrati, imprenditori, amministratori - è di moralità specchiata. Supponi poi - ha soggiunto il mio amico - che il nostro Candido apra un qualsiasi libro di storia patria degli ultimi centocinquant'anni. Con stupore e sconcerto leggerebbe di scandali, ruberie e misfatti che gli storici ascrivono a quella stessa classe dirigente: crack bancari e finanziari, mazzette in cambio di appalti, distrazione di fondi gestiti in affidamento ecc. ecc. Gliene verrebbe un dilemma: o gli storici raccontano balle o i giudici non fanno il loro dovere - non è possibile che ladrocini così pervasivamente diffusi non siano mai stati scoperti per tempo, cioè prima che scattasse quella forma d'oblio collettivo che è la prescrizione, o peggio che i processi ai responsabili si siano conclusi con delle assoluzioni.
Entrambe le alternative sono però sbagliate, ha continuato il mio amico. In Italia non è che non si sappia che la classe dirigente è corrotta: lo sappiamo benissimo, tutti, e ogni tanto c'è pure qualche straccio che vola. Ma, proprio come accade nei romanzi di Leonardo Sciascia, questa consapevolezza è rimasta patrimonio privato e mai o quasi si è trasformata in un discorso collettivamente condiviso, capace di ispirare pratiche consapevolmente riformatrici dell'esistente. E ciò non perché non possa darsi al riguardo una verità, come pretenderebbero frotte di ammaestratori del pensiero debole, ma perché la sua «rivelazione», cioè la sua elaborazione collettiva, è stata con forza impedita da un potere che - per usare proprio parole sciasciane - «sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa».
Un potere che ha sempre tenuto in gran «dispitto» tanto gli storici quanto i giudici (s'intende, quando hanno provato a raccontarne pubblicamente le malefatte e non si sono accomodati alla sua tavola riccamente imbandita) ed è riuscito così bene nell'intento di autoperpetuarsi che i cambiamenti da noi hanno sempre assunto la forma di «rivoluzioni passive», qualsiasi istanza di trasformazione sociale avendo avuto bisogno del suo preventivo e immancabile assenso.
Ogni società, si può aggiungere, tende a conformarsi alle pratiche della sua classe dirigente: il potere è sempre frutto di coercizione e consenso, dittatura ed egemonia, società politica e società civile, e forse è proprio per questo che alle ruberie dei «dirigenti» hanno storicamente fatto da pendant l'evasione fiscale e/o l'abusivismo edilizio dei «diretti», mentre in anni più recenti perfino la frenesia di produrre denaro a mezzo denaro è dilagata verso il basso, coinvolgendo strati sempre più ampi dei «diretti» in quel gioco a somma zero che è la speculazione di borsa. Ma non per ciò è lecito non distinguere fra gli uni e gli altri, accomunandoli nel calderone del «sistema-Paese», come adesso interessatamente suggeriscono gli organi di stampa della comunità finanziaria internazionale allo scopo di indurre il governo a «nazionalizzare» i debiti della Parmalat.
Casi del genere, al contrario, debbono servire a marcare quella distinzione, a ribadirla. Potrebbe darsi che i «diretti», i «governati», comprendano quanto rischioso sia legare il proprio destino a un mercato finanziario infestato da epidemici conflitti d'interessi, mandino al diavolo quei «riformisti» che li esortano a scambiare la pensione con un fondo e tornino a pretendere non rendimenti finanziari ma redditi reali - scuole, ospedali, previdenza, in una parola politiche pubbliche. Sarebbe la prima volta che una rivoluzione nasce dal latte rancido e in quest'alba del 2004 è il miglior augurio che possiamo farci.