ECONOMIA

Lo stato sociale nell'era del declino

INTERVENTO
ROMANO ROBERTO,ITALIA

L'attuale situazione economica, finanziaria e sociale del paese potrebbe aprire una riflessione, seria, sul nostro futuro. Si potrebbe approfondire una dicotomia che, se non recuperata, condizionerà lo sviluppo qualiquantitativo dell'Italia. Indubbiamente possiamo sostenere che in Italia esiste, nel bene o nel male, un quadro legislativo che attribuisce allo stato sociale e alla partecipazione dei cittadini e dei lavoratori un ruolo fondamentale. L'articolo 3 della Costituzione è molto esplicativo, ma anche tutte quelle norme che tutelano il mondo del lavoro. La legislazione sullo stato sociale è da sempre stata affiancata da un «convergente» sistema produttivo. Quando cresceva il sistema produttivo (in dimensione, in ricchezza e in qualità), nella stessa misura si consolidava lo stato sociale. Sostanzialmente si è «consolidato» uno scambio da cui tutti traevano beneficio. Non a caso il settore privato, come il mondo del lavoro, assegnavano al Pubblico un ruolo di intermediazione e sostegno-distribuzione del reddito che garantiva tutti. Qualora venisse meno uno dei due elementi costitutivi appena descritti, il modello potrebbe tenere? Se il modello di produzione del Paese diventa un onere per i cittadini, è possibile «tenere» la posizione di alto profilo per lo stato sociale? Il Paese si trova proprio davanti a questa sfida. Negli anni `90 l'Italia reale non solo si è allontanata dall'Europa, ma si è marginalizzata sviluppando delle contraddizioni che difficilmente potranno essere ricomposte in pochi anni. Nonostante una crescita degli investimenti fissi lordi pari, se non superiore, alla media europea, il Pil ha registrato un minore tasso di crescita; l'Italia ha un tasso di produzione esattamente della metà della media europea e un tasso di utilizzo degli impianti decisamente più contenuto; l'Italia incorpora tecnologia e non la produce, cioè deve attendere «il lavoro cognitivo» realizzato in altri paesi per sviluppare i propri prodotti (l'Italia esporta poco h-t, ma non può rinunciare a importarla); l'Italia è condannata a crescere meno della media europea perché ha scelto di operare nei settori produttivi con minori tassi di crescita.

Spesso si assiste a un dibattito segnato da preconcetti che poco servono alla causa interpretativa dei fenomeni economici, riconducendo tutti i problemi alla necessità di avere più o meno mercato. Fortunatamente la realtà è più complessa: non esistono equilibri economici o approcci economici validi per tutte le stagioni, piuttosto la fatica e la ricerca di equilibri superiori e l'intelligenza per utilizzare gli strumenti del «sapere e saper fare» adatti a risolvere i problemi. Si tratta di recuperare la posizione del riformista, stretto tra l'ormai stanca critica mossa da sinistra di essere puntello del «sistema» e il ben più aggressivo ritorno di una ideologia neoliberale di generica esaltazione del mercato. Due retoriche contro le quali ben poco ha potuto quella «fiducia nella forza delle idee» ostinatamente difesa da Federico Caffè. La «nostalgia del buon governo nel quale in fondo si identifica quel tanto di socialismo realizzabile nel capitalismo conflittuale».

È strano, ma tanto più «l'incertezza» condiziona il mercato, tanto più viene promossa come soluzione per risolvere la crisi. Ciò avviene da destra come da sinistra. Un paradosso che non ha nessuna giustificazione teorica, soprattutto per chi «sostiene il libero mercato». Infatti, il mercato presuppone che le transazioni siano volontarie e chiunque può legittimamente opporsi: i termini della transazione devono essere noti alle parti in causa così che queste possano decidere se conviene loro partecipare o meno, al fine di creare omogeneità di conoscenze e di abilità. Il mercato si basa sulla libertà del soggetto, che deve essere libero non solo nel senso «debole» di poter scegliere tra alternative, ma anche nel senso «forte» di potere, in qualche modo, scegliere quelle alternative. Sono tutte condizioni che nei fatti limitano la realizzazione del libero mercato. Infatti, l'attuale sistema economico più che un libero mercato sembra il «trionfo dei fallimenti del mercato».

Penso che occorra trovare un equilibrio superiore al compromesso tra crescita economica e diritti sociali raggiunto nella seconda metà del `900, che non era solo il frutto di un equilibrio economico, o di un accordo tra il sistema produttivo e il mondo del lavoro e la società civile, ma è da considerarsi la forma più avanzata dello sviluppo capitalistico liberale. Solo in questo modo è possibile, di nuovo, fare convergere sviluppo e stato sociale.

* Cgil Lombardia

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