VISIONI

Lo spiritual indomito di Randy Weston

UMBRIA JAZZ WINTER
ONORI LUIGI,ORVIETO

Blue Moses, Mosè blue nell'ampio significato di colore, suono, forma musicale. È un intenso brano che il pianista Randy Weston (dominatore dell'XI edizione di Umbria Jazz Winter, conclusasi ieri) ha eseguito sia in quintetto (29/12, teatro Mancinelli) che in solo (30/12, museo Emilio Greco). Blue Moses è una sorta di spiritual Gnawa, confraternita di ex-schiavi marocchini con cui Weston è stato lungamente a contatto durante e dopo la sua permanenza in Nordafrica. La cosmogonia degli Gnawa prevede per ogni persona un abbinamento tra colore e nota: il blu è il colore del santo e la tensione mistico-cerimoniale del brano è ben avvertibile. Che il jazz e la musica afroamericana abbiano insito un messaggio di spiritualià e di fratellanza è elemento importante. D'altro canto la black-music ha saputo inventare forme di resistenza e di lotta politica, come dimostrano - ad esempio - la tradizione militante degli spiritual e lo stesso Weston che nel 1960 registrò una suite in quattro movimenti (Uhuru Afrika) con liriche di Langston Hughes che celebrava la nascita di 17 stati africani, liberatisi dal colonialismo. Il 77enne pianista di Brooklyn l'ha riproposta in apertura del suo emozionante solo al museo Greco: la magnifica partitura conserva un'assoluta attualità.

In una rassegna laica che abbina il jazz al turismo, una città d'arte legata al medioevo (ma gli imperdibili affreschi di Luca Signorelli nel gotico Duomo sono pienamente rinascimentali e ispirarono Michelangelo) con musiche di matrice nera, qualche barlume di spiritualità è arrivato anche dal gospel, meno presente di altre occasioni essendo la rassegna più sbilanciata verso i mondani soul e rhythm & blues (Chucky `C' and Clearly Blue, The Original Funky Seven Brass Band, Mitch Woods and his Rocket 88's). Il familiare Johnson Extension Gospel Choir proviene da New Orleans e mette insieme tre generazioni, sotto la direzione della matriarca (così si è autodefinita) Lois J. Dejean, la cui voce ed il cui piglio hanno poco da invidiare alla migliore Aretha Franklin. Presente lungo tutto l'arco del festival (Palazzo del Popolo, sala dei 400), il coro ha 11 voci femminili, 4 maschili e una ritmica, con una formidabile sezione di voci sopranili. Guidati dalla Dejean ma anche dall'ispirata Pamela Landrum, il coro alterna brani più mistici a tempo lento ad altri in cui, com'è proprio delle black-church, le tensioni ritmica e vocale si sommano in un rito che travolge il compassato, almeno all'inizio, pubblico. I tradizionali Hey Man, This Little Light of Mine, Oh Happy Day si giustappongono a brani gospel più recenti, come Do You Know Jesus? che dal funky arriva quasi al rap. La religione e la famiglia sono alla base del gruppo il cui messaggio, però, appare tutt'altro che leggibile in chiave conservatrice se non di un patrimonio che ha fornito identità e forza ai neroamericani (Martin Luther King era un pastore battista e tanto Charles Mingus che Randy Weston ricordano l'importanza della church music per la loro formazione).

Ha altre radici il jazz che si è sentito al teatro Mancinelli il 29 dicembre dal trio del fisarmonicista Richard Galliano, con il ruvido Larry Grenadier al contrabbasso e un raffinato Clarence Penn alla batteria (si è esibito anche il 30 nonché il 31 con Enrico Rava e Stefano Bollani ospiti; i concerti sono stati registrati per un album live dell'etichetta Dreyfus). La musica di Galliano, sia essa tinta di blues (Regain) o immersa nel jazz (Ruby, My Dear), tende all'eleganza ed alla rifinitura; ha nel suo dna il tango (Tangaria), il valzer musette, l'improvvisazione virtuosa e la musica classica che l'artista francese ha direttamente omaggiato eseguendo al piano la Gnossienne n°1 di Erik Satie. Applaudito da un pubblico affezionato, Richard Galliano sembra giunto ad un delicato punto della sua carriera, ad una sorta di equolibrio statico in cui alla musica manca il guizzo improvviso che ha avuto in altre stagioni (memorabile il suo duetto orvietano con Michel Portal), anche se appare ancora ispirata (Little Big Man, struggente brano suonato con la melodica e dedicato a Michel Petrucciani).

Nel corso del festival (27 dicembre-1° gennaio), che ha rinunciato a proporsi come laboratorio di nuove tendenze, preferendo riproporre a nastro gli stessi artisti e contando su una popolarità ormai consolidata, curiosità, echi mediatici, stupore ha suscitato l'altista siciliano Francesco Cafiso, musicista 14enne dalla tecnica eccellente che ha un vasto repertorio fitto di ballad, blues e classici del bebop (da Ko Ko ad Angel Eyes, da Blue Monk a I'll Remember April). Cafiso è stato accompagnato da tre giganti come Franco D'Andrea, Giovanni Tommaso e Roberto Gatto da cui non è apparso affatto intimorito. Unisce alla tecnica (Charlie Parker, Phil Woods, Cannnonbal Adderley, Massimo Urbani) una musicalità portentosa all'interno del codice bebop. Sarà con un'élite di jazzisti nostrani a New York in gennaio per una serie di eventi curati da Umbria Jazz; Cafiso suonerà, con la benedizione di Wynton Marsalis, accompagnato da un trio con James Williams, Ray Drummond e Tony Reedus. Dopo averlo ascoltato dal vivo (al Palazzo dei Sette) non si può che ammirarne la tecnica, con la speranza che gli sia lasciato il tempo giusto per crescere e per maturare artisticamente, senza finire schiacciato sotto il peso della propria bravura.

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