Se c'è una stella nel firmamento di Umbria Jazz Winter ha il nome del pianista e compositore afroamericano Randy Weston. L'undicesima edizione del festival (27 dicembre - 1 gennaio 2004) ruota - artisticamente - attorno alla sua figura e alle sue esibizioni, due in solo piano e una in quintetto. Weston, 77 anni magnificamente portati, è uno dei jazzisti più importanti ancora in attività, un artista che ha solcato la storia della musica nera dagli anni `50 portando avanti un'idea complessa di quella che egli chiama African-American Classical Music, e che dalla natìa Brooklyn è passata attraverso i Caraibi, l'Africa (dalla Nigeria al Marocco), l'Europa e in particolare la Francia, per tornare negli Usa e sostanziarsi in quelli che il pianista chiama African Rhythms. Non c'è solo Randy Weston sui palcoscenici dell'antica cittadina etrusca: gran parte del pubblico conosce a malapena il suo nome, mentre sono noti e apprezzati molti degli artisti italiani presenti e disseminati nei tanti luoghi del festival (Nicola Arigliano, Franco D'Andrea, Enrico Rava, Giovanni Tommaso, Roberto Gatto, Gianluigi Trovesi, Stefano Bollani, Stefano Di Battista, Rosario Giuliani...). Il pubblico si affolla e balla al suono del rovente nonetto guidato dai percussionisti Horacio «El Negro» Hernandez e Robbie Amen (è stato presentato proprio a Orvieto il loro cd Live at Umbria Jazz, prodotto da Around Jazz ed il manifesto), mentre nel centro storico echeggiano le note piene di energie dei Funkoff, una band di strada toscana che elettrizza piazze e vicoli medioevali. Non mancano, peraltro, i fan di artisti che spesso hanno suonato ad Orvieto e Perugia: il fisarmonicista Richard Galliano ed il trombettista Terence Blanchard (autore della colonna sonora de La 25° ora di Spike Lee). Il 28 sera il sipario del teatro Mancinelli si è aperto per il solo di Randy Weston. In un'ora di concerto il pianista ha fatto vibrare il suo strumento come fosse un'orchestra jazz insieme ad un ensemble di percussioni, lavorando in modo magistrale sui timbri (quelli scuri così nitidi e scultorei, gli acuti cristallini e scampananti), sulle dinamiche in un'alternanza di pianissimi e fortissimi, sui ritmi (dal tempo libero fino all'incalzante walking bass). Weston fa la sua musica e solca quella di un cinquantennio di jazz, unisce lo stride piano a Cecil Taylor, il blues agli Gnawa marocchini. Ha un senso narrativo della forma che gli consente di creare il solo come un flusso di coscienza personale e collettivo che comprende Dizzy Gillespie, Monk, Ellington ma soprattutto sé stesso, da Little Niles a Blue Moses. Il pianista incanta e seduce il pubblico, lo porta per mano fin quasi sul punto di destrutturare la musica: poi riprende il battito vitale e pulsante del ritmo, il volo lirico od epico della melodia. La musica per Weston ha un alto valore di comunione spirituale, è quella degli antenati africani che vive e si rinnova, in un processo di continuo arricchimento, di memoria che ricrea. Non capita spesso di sentire jazz di tale profondità, forse per un fatto generazionale: eppure Weston non celebra sé stesso, è artista stellare che si dona al pubblico con intensità assoluta, sciamanica. Difficile reggere il confronto: il sestetto di Terence Blanchard, sempre al Mancinelli, è tecnicamente perfetto come il leader (un Freddie Hubbard del 2000) ma la sua musica risulta cerebrale tranne che per il chitarrista del Benin, Lionel Loueke; Horacio Hernandez e Robby Ameen (al Palazzo del Popolo) infiammano il pubblico nottambulo con la loro musica meticcia a base cubana (il loro Simpathy for the Devil fa rinascere i Rolling Stones), son e rap sposati in modo originale; Stefano Bollani (Museo Greco) che fa del piano solo una sorta di cabaret musicale raffinato e popular, in grado di far convivere con effetti di voluto straniamento Monk e Quel mazzolin di fiori, per concludere con una presa in giro dell'inno di Forza Italia. La rassegna proseguirà fino al primo gennaio del nuovo anno con un cartellone ciclico.