Povero George W. Bush, che deve guardarsi anche dalle canzoni. Nel 2003 il presidente, oltre che leggerne di tutti i colori su una stampa poco comprensiva del suo doveroso compito di esportatore di democrazia, se le è sentite cantare nel senso più letterale dell'espressione. E se la sua opera, preventiva e non, ha scatenato la penna di un incaponito Michael Moore, autore di due libri abbastanza incazzati (Stupid white man e Ma come hai ridotto questo paese?, peraltro qui da noi editi da Mondadori), nelle canzoni che hanno affrontato la questione è comparso il suo nome - e cognome. La storia insegna che infinita è l'epoca dei Masters of war (Dylan, 1963), ma lontani da Vietnam e Guerra Fredda, che generarono un filone specifico della canzone di protesta, non è più il tempo di appelli come quello di Randy Newman in Political science, del 1974, paradossale invito a sganciare «quella grossa» sui paesi nemici (upgrade 2003: stati canaglia): Nessuno ci ama / Non so perché / Forse non siamo perfetti / Dio solo sa se non ci proviamo / Ma dappertutto, anche i nostri vecchi amici, ci hanno abbandonato / Buttiamo quella grossa e vediamo che succede.
Già lo scorso anno la passionaria Ani Di Franco aveva lanciato la staffilata: e noi pensiamo che queste verità siano evidenti: / #1 George W. Bush non è presidente / #2 L'America non è una reale democrazia / #3 I media non mi prendono in giro (in Self evident). E a ridosso della visita delle forze armate statunitensi all'Iraq, nella «lettera al mondo» che ha accompagnato il disco Everyone deserves music, Michael Franti e i suoi Spearhead affermavano con un gioco di parole: «We can bomb the world to pieces, but we can't bomb it into peace», che riassumeva al meglio la sua «opinione sul militarismo».
Il gigante nero californiano non è uno che le manda a dire: fanno guerra per il petrolio, guerra per l'oro / guerra per i soldi, e guerra per le anime / guerra al terrore, guerra alle droghe... guerra agli hippies che cercano di salvare gli alberi. Dal dominio del mercato alla religione, dalle libertà individuali al protocollo di Kyoto, non manca niente. E per maggior chiarezza: una guerra che sta riempiendo il paese di prigioni / prima guerra mondiale, seconda, terza e quarta / armi chimiche, guerra biologica / prima guerra di Bush e seconda guerra di Bush / fanno la guerra per me e fanno la guerra per te!!!.
Poi, sul finire di ottobre Rickie Lee Jones pubblica il suo nuovo lavoro dopo molti anni di assenza. The evening of my best day si apre con un brano raffinatissimo, dall'andamento jazzato e inquieto intitolato Ugly man. Insospettabile Rickie. Ma se a qualcuno venisse qualche dubbio ascoltando e lui ti dirà bugie /ti guarderà e ti dirà bugie / è cresciuto per essere come suo padre / orribile dentro, un giro sul sito www.furnitureforthepeople.com - la web community della Jones - lo conforterebbe con l'immagine del Presidentone in cima al testo del brano.
Una foto di George W. scattata al televisore, un fotogramma di una delle innumerevoli comparsate con cui spiegare necessità storiche e rinfocolare il consenso minato da un andamento della storia non proprio coincidente con le sue già zoppicanti premesse. Del resto qualche giorno fa proprio il nostro, di Presidente, ha precisato, dopo la criticatissima intervista al New York Times, di non aver mai detto «che la democrazia va esportata con la forza, ma attraverso la cultura e la televisione». E Apicella, si potrebbe aggiungere, visto che parliamo di musica.
Rickie Lee insiste: e quando i ragazzi arrivarono dal Texas / dissero 'ci prenderemo tutto quello che potremo...', sistemato in Little mysteries, fa pensare a qualcosa di più di un caso.
Più che a We don't stop di Franti, che ha buona compagnia non solo nei Rage Against The Machine e nei nostri 99 Posse, ma anche nel più nascosto Billy Bragg, quello di The Price of oil (2002): voci alla radio / ci dicono che stiamo andando in guerra / quei coraggiosi uomini e donne in uniforme / vogliono sapere per cosa vanno a combattere [...] è tutto per il prezzo del petrolio, la canzone della Jones appartiene al versante di Randy Newman, quello che alla militanza stretta e dichiarata preferisce la chiave affilatissima dell'ironia: lui scimmiottava le posizioni guerrafondaie oggi tanto care ai neoconservatori, lei dice il proprio disprezzo nella dissonanza di una presa per i fondelli che ha toni musicali quasi da dichiarazione d'amore (in fondo basterebbe sostituire ugly - «orribile» - con handsome - «bello»).
Siamo vicini a quello che ha fatto Ivano Fossati in Contemporaneo, contenuta in Lampo viaggiatore, album uscito nella scorsa primavera, dopo quasi 700 giorni di governo Berlusconi. È sottile, ma neanche troppo, il filo su cui Fossati fa viaggiare il ritratto del ceto trasversale italico nato dalla propaganda spinta dei nuovi «valori»: Meno ideale più ragione/come dire meno sentimento/capacità di stare collegato / all'ordine del mondo / nel feroce futuro / un rigore metallico / discrezionalmente morale / sbranare chi capita. La perfida abilità del musicista sta nel mettersi «dentro»: corro insieme a voi / corro e desidero / corro insieme a voi / contemporaneo / sogno con voi un poco dei vostri / raggiungibili sogni.
Qualcosa di molto prossimo, pur nelle differenze di stile e di «target», alla vecchia (1997) Quelli che benpensano di Frankie Hi Nrg (molto prima c'era stata Fight da faida), come anche a Il mio nemico, singolo di Daniele Silvestri dello scorso anno: perché la sola ragione che ti interessa avere / è una ragione sociale /soprattutto se hai qualche dannata guerra da fare / non farla nel mio nome; e anche lì, intenti paradossali con citazione di lusso: sparagli Piero, sparagli ora. Ora il fenomeno è talmente esteso, e la sua onda parecchio lunga, che opera politica diventa anche il disco di un musicista elettronico, Matthew Herbert.
Nel suo Goodbye swingtime, uscito in primavera, il manipolatore di suoni ha inserito rumori catturati all'Anti War On Iraq March dello scorso 16 febbraio a San Francisco, di cui nel booklet si riportano alcune insegne: Menopausal women against Bush; Marijuana is a herb, Bush is a dope; Blondes against dumb wars e molto peggio, fino al definitivo Fuck Bush, Use no lubricants. Il genio creativo di Herbert fa suonare la tastiera di un computer che digita l'indirizzo www.soaw.org (il sito della The School of Americas Watch, che documenta il coinvolgimento Usa nelle dittature militari latinoamericane). E interpolato agli strumenti veri, in Misprints («Errori di stampa») c'è lo sprezzante suono di ritagli di giornali sul conflitto iracheno riempiti di popcorn, riso e «monetine straniere». Herbert e i suoi musicisti sono soliti riprodurre l'effetto sul palco: alla storia il compito di conservare il ricordo del recente concerto romano del nutrito ensemble, impegnato durante tutto il brano a sminuzzare fogli del quotidiano La Padania.
Sono solo canzonette, ma nonostante la crisi del disco - e i venti di censura - girano il mondo, e se anche un musicista elettronico ricorre a «raffinatezze» del genere, c'è da soffermarsi sul fatto che nella marmaglia artistica a remare contro apertamente non è più solo mezza Hollywood o Cinecittà, ma anche molti tra quelli che lavorano col pentagramma e raggiungono un significativo numero di orecchie.
Insomma, il musicale è politico, ora più che mai. Lo diceva 12 anni fa lo stesso Michael Franti col suo gruppo di allora, i Disposable Heroes Of HipHoprisy: Se mai smetterò di pensare alla musica e alla politica / vi dirò che la musica è espressione di emozioni / / e che la politica è solo un'esca.