CULTURA

I nuovi recinti umanitari

SOSSI FEDERICA,ITALIA

Una sfida al racconto che il mondo globale tende a fare di se stesso, allo sguardo centrale da cui produce i propri enunciati, dimenticando trame più marginali ed eventi di poco lontani dal presente da cui parla che lo costringerebbero a confessarsi con maggiore continuità. Sin dal titolo del libro, è questo, in sintesi, il tentativo di Federico Rahola in Zone definitivamente temporanee. I luoghi dell'umanità in eccesso (Ombre corte, € 14,50). Un tempo e uno spazio necessariamente intrecciati, ma dalla cattura di una temporalità che può essere detta soltanto attraverso quell'ossimoro, in cui il «per poco» si annoda a un «per sempre» che ci costringe a guardare a quelle zone cercando in esse le diramazioni in cui dai margini ci parlano del centro e dal presente del passato. E in realtà, una duplice sfida, perché quelle zone possono essere raccontate a partire da una di esse. «Plémentine: una trentina di grosse barracks, la maggior parte in muratura, alcune in lamiera, divise in tre blocchi recintati, in cui - al tempo del mio soggiorno, nel dicembre del 2000 - erano `concentrate' complessivamente circa ottocento persone». Insomma: un campo. Dalla cesura dell'11 settembre veniamo riportati indietro, ma di poco, e verso un altro territorio, nomi di città che pensavamo sepolti nella nostra memoria: Plémentine è un sobborgo di Obilic, a qualche chilometro da Pristina, in Kosovo. Ma non è dal presente della guerra che inizia quest'altra narrazione del globale, bensì dal presente di un dopo che decreta però lo scenario della guerra come permanente e definitivo. Perché quel campo, nel dopo, e per chi quel campo, nel dopo? Per proteggere, suona la risposta alla prima domanda, su cui tutti, dagli abitanti del campo all'Alto Commissariato per i rifugiati, passando per il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e per le forze militari internazionali sotto il controllo della Nato, sembrano concordare. Più difficile, invece, appare la risposta alla seconda domanda, sebbene la lingua ufficiale di chi può prendere parola in Kosovo risponda con sicurezza: per le minoranze etniche.

Una risposta, comunque, che nella sua apparente immediatezza nasconde molto, un rimando tautologico capace di chiudere il cerchio della guerra condotta dalla Nato e del disastro fatto di mille divisioni che essa ha provocato e ratificato sulla parola magica a partire da cui la guerra si era legittimata: umanitario. Umanitaria la guerra, umanitario il dopoguerra, che solo nel segno delle «minoranze etniche» giustifica la presenza delle forze internazionali, così come gli infiniti cascami di Alti commissariati e Ong che le accompagnano. Con un unico, quasi irrisorio, problema: perché nel cerchio dell'umanitario è proprio la vita degli individui che compongono quelle «minoranze etniche», in realtà perseguitate, ad essere assorbita, potendosi declinare e dire, quotidianamente, solo nei termini di un'esistenza umanitaria svuotata di tutto ciò che nella vita permette alla vita di non essere pura sopravvivenza biologica.

Per chi, allora, quel campo nel dopo? Per circa ottocento persone che nel segno di un racconto di sé che si declina proprio in base a quella appartenenza etnica decretata dalle autorità internazionali lasciano delinearsi un'altra narrazione. Rom e serbi, rom serbi e rom albanesi, rom, in realtà, non albanesi, rom di lingua albanese, askalja, perché se fossero albanesi non sarebbero confinati tra i recinti di quella costruzione: questi gli abitanti del campo. In realtà, ottocento individui, circa, per i quali le parole di uno di loro potrebbero valere come sintesi, parole riferite al fuori ma che si chiudono inesorabilmente nel dentro: «non puoi mai sapere ciò che ti può succedere quando capiscono che sei del campo». Individui del campo, un'identità declinata a partire dallo spazio abitato, quella zona temporanea e definitiva, che costringe a un racconto di sé estremamente sintetico, un «sono del campo» in cui tra le maglie o i recinti di quel confine tutto si perde - il sé, il passato e il futuro - e dal nulla autobiografico riemerge, irremovibile, il campo.

Una strana identità, in cui ogni elemento di singolarità deve necessariamente annullarsi per poter rientrare nella rete plurale e generale dell'etnia che legittima il qui del campo: per questo, si può scegliere un racconto per dire come una persona sia arrivata lì, ma se ne potrebbe scegliere un altro, perché le modalità con cui quei racconti si costruiscono lasciano intravedere la consapevolezza di un «noi» che mette a tacere l'io del soggetto narrante. Una strana identità interamente racchiusa nell'appartenenza a uno spazio di confine, a un'etnia per cui quello spazio diventa l'unico luogo possibile, a un tempo presente, definitivamente tale. In realtà, un'identità che in questo gioco di appartenenze che si rinviano l'un l'altra riesce a sussurrare anche altre parole, o meglio, un unico silenzio, altrettanto plurale e limitato: quelle identità, singole, appartengono tutte a una forma di umanità per cui è stata stabilita un'assoluta non appartenenza, uomini e donne in eccesso, che i campi insieme configurano e contengono.

Tra i racconti confinati da cui si snoda la riflessione di Rahola ne scelgo uno, quello di una singolarità che non può dire nulla di sé e che dicendo la consapevolezza di tale impossibilità permette al proprio racconto di dare inizio a quell'altra narrazione che il presente globale dovrebbe fare di se stesso. «Se fossi ancora in Germania lavorerei e probabilmente sarei un rifugiato. Qui invece sono costretto a stare in un campo: perché non posso lavorare e perché non posso essere rifugiato nel mio paese. Non posso essere niente. Per me è più facile dire quello che sarei in Germania che quello che sono qui». Non rifugiato: proviamo a partire da qui. E improvvisamente, ci troviamo a scivolare in un rimando di temporalità che dal presente globale, costellato da infiniti piccoli luoghi che confinano l'attuale non appartenenza, risale al 1951, alla Convenzione di Ginevra, e agli anni che quella Convenzione credeva di poter relegare in un passato per sempre passato, quasi un ventennio che aveva trovato proprio nei campi i confini per i non appartenenti dell'epoca, le masse di apolidi nell'Europa degli anni Venti e Trenta e poi gli ebrei della Germania nazista. Non solo, perché a partire da quel racconto marginale di un presente decentrato, oltre a uno sguardo decentrato sul presente, che narra quest'ultimo come era dell'eccesso accanto alla narrazione che lo descrive come era dell'accesso, veniamo condotti alla necessità di un altro spostamento di tempo e di luogo: dall'Europa delle minoranze non riconosciute dagli organi statuali-nazionali usciti dalla fine della Prima guerra mondiale, in cui i campi di internamento, nell'intuizione di Hannah Arendt, erano «surrogati di patrie» per gli apolidi, a un territorio popolato interamente da non appartenenti. Dai sudditi dei territori colonizzati, per i quali, per primi, l'Occidente ha inventato i campi. Una possibile genealogia della «forma» campo, è anche questo il libro di Rahola, con cui, sulla scia degli studi postcoloniali, ci richiama alla «necessità di vedere nel presente le tracce ancora vive di un passato di dominazione che non passa, senza poterle più ricondurre linearmente a quella geografia polarizzata, fatta di tempi e di spazi rigorosamente separati lungo il confine fisico ed epistemico che ha diviso l'Occidente dalle colonie».

Non rifugiato, ripartiamo da qui. Per accorgerci che in questa espressione è proprio il non a svelare le scelte politiche attraverso cui, inevitabilmente, tutti i non, rifugiati e non rifugiati, migranti e minoranze perseguitate, si trovano potenzialmente risucchiati nella stessa logica del presente, quell'eccedenza umana continuamente prodotta su scala globale, per la quale si inventa un diritto a risiedere come unica forma di diritto, e il luogo di tale residenza: campo profughi, quando li si lascia attraversare le frontiere dei loro paesi; campo umanitario per Internally displaced persons, quando, come nel caso del Kosovo, li si condanna a un assoluto divieto di uscita; campo di detenzione, quando, come in quasi tutti i paesi dell'Europa e del mondo scelti come mete lavorative dai migranti, li si seleziona rispetto all'entrata, e a una messa a valore all'interno, o li si rimpatria perché inutilizzabili e per suggerire il modello delle forme di utilizzabilità a cui i «fortunati» dovranno sottostare.

Una forma di esclusione che ha cessato di dialogare con l'inclusione, o che, dal momento che la genealogia dei campi ci riconduce nello spazio delle colonie, è sempre stata al di fuori della dialettica inclusione/esclusione su cui si struttura ogni spazio di cittadinanza, e che, risalendo dalle tracce ancora vive del passato verso il nostro presente, si configura oggi come luogo da cui guardare come attraverso una lente di ingrandimento tanto l'implosione e lo svuotamento dell'inclusione quanto il resto, l'eccesso che l'accompagna. Da quella lente, in effetti, la fotografia del presente si fa inquietante, perché ci consegna, rovesciata, l'immagine che Hannah Arendt delineava nelle Origini del totalitarismo parlando delle democrazie liberali degli anni Venti e Trenta del secolo scorso: non più una minoranza di apolidi rispetto a una maggioranza di cittadini, ma una «massa crescente e maggioritaria di soggetti postcoloniali e deterritorializzati» a cui «si contrappongono isole di cittadini i cui diritti tendono sempre più a contrarsi». Per questa massa, suggerisce Rahola proprio a partire dall'umanitario del Kosovo, un unico diritto, un'unica declinazione dei diritti umani che, facendo emergere in tutte le sue conseguenze il paradosso già contenuto all'origine della loro formulazione, ce li riconsegna sotto la forma di un lasciar vivere identico e indifferente rispetto al lasciar morire. Il diritto a una sopravvivenza biologica che svuota la vita di chi sopravvive e riempie, con quelle vite svuotate, i campi.

Un'unica annotazione. Attraverso quella lente di ingrandimento si rischia di oscurare, forse un po' troppo, il fatto che il presente globale è anche l'era dell'accesso. La grande massa dei «non» non popola i campi. E quando sconfina nelle isole di cittadini racconta non tanto autobiografie vuote o negate, ma autobiografie inventate, fatte anche queste di intrecci collettivi, generici ed etnici, consapevoli che quegli intrecci, non solo per loro, anche se soprattutto per loro, sono rimasti gli unici possibili nei territori dell'accesso. Il superfluo, allora, con le parole di Hannah Arendt, o l'eccesso, si fa ancor più inquietante: non designa più «solo» la maggioranza degli individui, ma la nozione stessa di individualità. Né un nostalgico ritorno ai racconti del sé, da sempre ambiguamente legati nelle reti di un potere disciplinare, né, come in parte suggerisce questo libro, il diritto a una forma di exit, possono allora rappresentare rivendicazioni sufficienti per ritrovare quella possibilità di voce e azione di cui i campi sono la più immediata negazione.



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