Con gli attentati di Istanbul e di Baghdad cominciano ad intravedersi le conseguenze su scala globale che, dopo l'11 settembre, le guerre all'Afghanistan e all'Iraq hanno impresso alle vicende politiche internazionali. E probabilmente siamo solo all'inizio. Si sta entrando in una spirale che sarà sempre più difficile interrompere senza una svolta politica di grande portata. Non consola dire che lo avevamo previsto. Né basta l'obiezione etica, morale (e di legalità) alla guerra. Oggi il movimento per la pace è ancora in piazza, ma aver de facto accettato l'idea che la guerra era finita quando l'ha dichiarato Bush e non aver indagato a sufficienza sulle ragioni politiche del conflitto ci ha reso più deboli. L'emozione tremenda ha colpito tutti noi di fronte alla strage di Nassiryia, la percezione che la guerra sta entrando in casa, ha scosso nel profondo la società italiana e cominciato a costruire consenso a risposte semplicistiche e autoritarie inscritte in un malinteso senso patriottico. Le maniere forti andranno per la maggiore e si alimenteranno della spirale che Nassiryia ha aperto. Già il clima di guerra sta determinando conseguenze, quasi non contrastate, sul terreno dei diritti civili come la espulsione, apparentemente per soli reati di opinione, di Abdou Kadel Mamour e di altre sette persone.
Non illudano i risultati del sondaggio pubblicato all'indomani della strage di Nassiriya da La Repubblica secondo i quali c'è ancora una maggioranza di opinione pubblica che resta contraria alla guerra e alla presenza militare italiana in Iraq. A fronte della mancanza di una ipotesi politica questa maggioranza non sarà più tale in breve tempo. Per evitare ciò non basteranno le manifestazioni, sarà necessario un lavoro «casa per casa», per contrastare lo scivolamento verso un senso comune sbrigativamente e consolatoriamente guerrafondaio.
Non aiuta una visione semplicistica. Gli attacchi ai militari in Iraq e gli attentati non sono la stessa cosa. Là è ormai operante una resistenza che ha anche consenso ed un terrorismo che risponde ad altre logiche. Semplificare non giova: né fare di tutt'erba un fascio etichettando tutti come terroristi e regalando ad Al Qaeda ciò che suo non è, né proclamare, come fa qualcuno, l'appoggio a una «resistenza» che può mettere in difficoltà gli Usa, ma non ricostruire la pace.
E' necessario che la vicenda irachena si chiuda al più presto con un ritorno alla legalità, altrimenti resterà come una ferita infetta in grado di diffondere il contagio in ogni parte del mondo.
E' vero che a ciò non basta il semplice ritiro delle truppe di occupazione, ma questo rimane una condizione sine qua non, e prima avviene, meglio è. Gli eserciti occidentali sono parte del problema e non la soluzione.
E' vero anche che la pace è possibile solo se il controllo dell'Iraq tornerà in mani irachene attraverso un processo che veda la partecipazione di tutte le parti della società irachena. L'annunciato passaggio del potere da parte Usa, che pure segnala una difficoltà dei neoconservatori al potere a Washington, può essere peggiore del male. Si ipotizza infatti un passaggio di potere a iracheni «scelti» dagli occupanti che non può che aprire una ulteriore fase di violenza interna.
Inoltre nessuna pacificazione è ipotizzabile senza che i paesi confinanti si astengano dall'intervenire negli affari interni iracheni, ma anche questo non sarà mai possibile permanendo la minaccia della guerra permanente e la presenza statunitense in Iraq.
E' pericolosissimo che non esista attualmente nessuno sforzo politico per sostenere un processo di discussione tra le forze irachene sul futuro del paese. E' pericolosissimo che gli iracheni possano oggi parlare al mondo solo attraverso ministri senza potere o guerriglieri senza speranza.
E' per questo che si devono ritirare i soldati; non solo per rientrare nella legalità, per evitare che l'Italia diventi obiettivo di attentati e altre vittime inutili, ma per cambiare politica. Non per lavarsene le mani e abbandonare gli iracheni al loro destino, ma per poter giocare un ruolo diverso insieme ad altri paesi europei. Il movimento per la pace deve cominciare a indicare in concreto questa strada.
Un ponte per...