Alla vigilia della conferenza internazionale dei donatori, con cui oggi gli Stati Uniti tenteranno di internazionalizzare l'occupazione illegale dell'Iraq c'è chi alza la voce contro l'occupazione militare del paese e la sua svendita alle multinazionali americane A lanciare l'allarme sono i rappresentanti dell'Iraq Occupation Watch - l'osservatorio sull'occupazione militare dell'Iraq creato di recente per iniziativa di diverse organizzazioni pacifiste fra cui l'italiana «Un Ponte per», e che ha scelto proprio l'occasione della conferenza dei donatori di Madrid per la sua prima uscita pubblica sulla scena internazionale.
Il fatto è - dice Herbert Docena di Focus on the Global South - che ben pochi conoscono la posta in gioco e il significato di questa conferenza.
Gli Stati Uniti, che hanno un disperato bisogno di fondi per finanziare la ricostruzione dell'Iraq nonché di truppe per consentire l'avvicendamento dei loro militari, molti dei quali sono nel Golfo da un anno e più, stanno chiedendo l'intervento di altri paesi. Questi però non sono disposti a partecipare all'impresa se non ricevono qualcosa in cambio. La soluzione? Offrire loro «una fetta della torta», dove la torta sono i lucrosi appalti della ricostruzione irachena sinora rimasti appannaggio esclusivo delle multinazionali degli Stati uniti.
Il denaro sarà - ovvio - quello dei contribuenti. La Spagna, in particolare, ha annunciato un impegno per 300 milioni di dollari. «Quanti dei cittadini spagnoli che sono scesi in piazza in massa contro la guerra lo scorso febbraio» - chiede Docena - «sanno che i loro soldi andranno a finanziare l'occupazione dell'Iraq, e quanti sono d'accordo?». Certo non è una preoccupazione del governo Aznar, la cui disponibilità a ospitare la conferenza viene denunciata da Loles Olivan, portavoce della «Campagna contro l'occupazione e per la sovranità dell'Iraq», gruppo storico spagnolo che per oltre dieci anni si è battuto contro le sanzioni.
«Non una conferenza di donatori ma un atto immorale»: non usa mezzi termini Fernando Suarez del Solar, messicano con cittadinanza americana, e sa di cosa parla.
Suo figlio Jesus, 20 anni compiuti da poco, è stato il primo soldato americano a cadere in Iraq, il 27 marzo scorso, vittima del «fuoco amico». «Io oggi sono qui in nome di mio figlio e di tutti i ragazzi - americani, inglesi, iracheni, caduti in una guerra illegale, costruita sulle menzogne», dice Suarez che e'membro di Military Families Speak Out, una organizzazione americana che riunisce persone i cui figli sono attualmente militari in servizio in Iraq, e che ha dato vita assieme ad altri gruppi pacifisti al movimento «Bring Them Home Now». «Dire no alla conferenza dei donatori è dire sìalla vita, all'autodeterminazione del popolo iracheno» prosegue Suarez, annunciando l'intenzione di recarsi in Iraq prossimamente con una delegazione di familiari di soldati: «Padri di famiglia», come lui li definisce.
Fine immediata dell'occupazione illegale dell'Iraq, non un soldo che vada a finanziare la privatizzazione del paese e la sua svendita alle multinazionali. No al tentativo di utilizzare i bisogni umanitari del popolo iracheno e gli aiuti umanitari come copertura per sostenere e promuovere gli obiettivi militari, politici ed economici delle forze occupanti. A sottolinearlo el'associazione «Un Ponte per», fra i membri fondatori dell'Iraq Occupation Watch, forte del suo impegno ultradecennale a fianco del popolo iracheno.
Queste posizioni espresse nella «Dichiarazione di Madrid» cominciano a prendere forza.
Dopo l'affollata conferenza stampa nella sede della stampa estera di Madrid, un incontro in parlamento con i rappresentanti di Izquierda Unita, che oggi in un dibattito parlamentare chiederanno conto al governo Aznar delle sue posizioni.
In una Madrid super-blindata che inizia a ricevere i potenti del mondo - alla conferenza dei donatori sono attesi fra gli altri il Segretario di Stato Usa Colin Powell e l'amministratore civile americano dell'Iraq Paul Bremer - qualcosa inizia a muoversi.
Oggi l'apertura dei lavori della conferenza avverrà in una zona volutamente di difficile accesso. La sera però c'è un'altra Madrid che scenderà in piazza per gridare con forza il suo «no».