CULTURA

Dal Kuwait all'Iraq, sotto il vessilo delle nuove armate

GUERRA INFINITA
TOMBA MASSIMILIANO,USA/MONDO

Dal conflitto del 1991 in Kuwait alle guerre «in difesa dei diritti umani» a quelle umanitarie, fino ad arrivare a quelle più recenti «preventive», «contro il terrorismo» nel segno della dottrina dell'amministrazione Geroge W. Bush. Lo scenario inseguinato di un mondo a dominio unico che, dopo l'89 e la fine della deterrenza della Guerra fredda basata sul possesso simmetrico dell'atomica, sceglie la guerra infinita e «asimmetrica» - per la disparità di forze tra i due contendenti - come soluzione delle controversie. Armi e bombe per portare la pace e la democrazia. Con i risultati che in Iraq sono sotto gli occhi del mondo intero. Di fronte alle novità e alle rotture con il passato che la guerra preventiva a stelle e strisce rappresenta non è certo mancato un imponente sforzo teorico e interpretativo per leggere e interpretare le forme nuove del conflitto e le parole nuove con cui si presenta e rappresenta. Forme e parole che interrogano il diritto internazionale, il ruolo mancato di organizzazioni come l'Onu, ma anche le distinzioni classiche, le coppie interpretative del linguaggio della politica tradizionale - come civile/militare, interno/esterno, guerra/pace, sulle quali si fondava ogni parvenza di un diritto bellico. Di fronte a questa crisi il lessico politico e le sue griglie interpretative cercano nuove definizioni per nominare l'oggetto che ci sta di fronte. La più recente letteratura sull'argomento ha parlato di guerra «globale» e «imperiale», oppure di «polizia globale». Un ampio ventaglio di definizioni che fa venire in mente l'ammonimento mefistofelico del Faust: «Proprio là dove mancano i concetti, compare, a tempo opportuno, una parola». La varietà caleidoscopica delle definizioni - e dunque del giudizio intepretativo - mostra la difficoltà di afferrare l'intera realtà di un inedito modo di proclamare e di agire il conflitto armato che si va dispiegando sotto i nostri occhi e che erode alla radice le categorie politiche comunemente impiegate nella teoria e nella pratica della guerra.

Herfried Münkler, professore di scienza della politica alla Humboldt-Universität di Berlino e autore di numerosi studi sulla teoria della guerra nel suo ultimo saggio che si si intitola Die neuen Kriege (Reibek bei Hamburg, Rowohlt), dopo aver passato in rassegna diversi tentativi di denominazione dei nuovi conflitti armati sceglie di parlare di nuove guerre senza alcun'altra specificazione, proprio a rimarcare la difficoltà concettuale di afferrare questo nuovo oggetto. Una scelta in consonanza con Mary Kaldor, in particolare con la sua analisi e la sua griglia interpretativa dei conflitti nella ex-Jugoslavia suggerita nel volume Le nuove guerre (edito da Carocci nel 1999). Con una domanda iniziale inerente proprio all'aggettivo «nuove».

A uno sguardo anche solo superficiale sull'epoca della statalizzazione della guerra appare evidente come essa abbia prodotto la determinazione di confini territoriali riconosciuti, rendendo cosí possibile la differenziazione tra interno ed esterno; una chiara distinzione tra guerra e pace; il diritto dello Stato di determinare politicamente la distinzione tra amico e nemico; la distinzione tra combattente e non combattente; una chiara linea di demarcazione tra azioni di guerra e violenza criminale. Si tratta di una serie di distinzioni che la statalizzazione della guerra mise in forma e che la sua attuale destatalizzazione sta mettendo in crisi. Su questo punto Münkler, riconoscendo certo l'indubitabile elemento di novitá racchiuso nelle nuove forme di guerra, nel libro cerca di mostrare una meno evidente analogia tra nuove e vecchie forme di guerra. Il parallelo, in particolare, è con la guerra dei Trent'anni. Non solo perché nella guerra combattuta tra il 1618 e il 1648 la violenza fu scatenata anche nei confronti della popolazione civile, ma soprattutto per la ragione che in essa il processo di statalizzazione non era ancora compiuto, cosicché gli attori del conflitto non erano solo gli Stati, ma anche entità non statali e private. Così come avviene in molte delle più recenti guerre.

Münkler ci suggerisce, dunque, che la costellazione nella quale si iscrivono le nuove guerre, espressione della crisi dello Stato-nazione, presenta molti paralleli con le guerre che hanno accompagnato il processo di formazione della statualità europea. Infatti, se la guerra dei Trent'anni può essere intesa come una guerra di formazione della statualità, le guerre che hanno portato alla dissoluzione la ex-Jugoslavia sono non tanto l'espressione della crisi dello Stato-nazione, quanto piuttosto processi che hanno accompagnato la patogenesi di nuovi Stati.

Ma delineare questi paralleli non serve a cercare nel passato immagini e modelli per l'interpretazione del presente, poiché la storia non concede mai repliche. Quella delineazione sembra invece voler essere un modo per meglio porre in evidenza gli elementi di rottura, e quindi di radicale novità, delle nuove guerre. La statalizzazione della guerra diede infatti luogo a un sistema di equilibrio, nel quale solo gli Stati sovrani erano soggetti competenti a dichiarare guerra, a condurre guerra e a stipulare la pace, cosicché le «guerre interstatali dell'Europa moderna furono condotte - salvo poche eccezioni - come guerre simmetriche», rendendo cosí possibile da un lato la giuridicizzazione della guerra, e dall'altro il tramonto della «guerra giusta».

La novità delle nuove guerre consiste allora nell'aver spezzato quella simmetria. Le guerre asimmetriche, principio che è alla base della Revolution in military affaire, non sono soltanto l'espressione della superiorità assoluta di una delle parti (in Iraq la coalizione anglo-americana), in modo tale da costringere l'altra alla resa incondizionata in un confronto militare privo di incertezze; esse mettono in moto un complesso di azione-reazione, producendo una asimmetrizzazione delle strategie. In questo nuovo contesto il fondamentalismo religioso non è da ascrivere a un residuo culturale irrazionale che ha riesumato l'idea di «guerra santa», ma, al contrario, la «guerra santa» si configura come risposta alla nuova asimetrizzazione della guerra e al suo piú genuino prodotto ideologico: la «guerra giusta».

La pretesa stessa di condurre una guerra giusta, in nome dei diritti umani o dell'umanità, rende fin da subito il conflitto asimmetrico, delegittimando irrimediabilmente l'avversario che, di fronte al diritto assoluto di chi combatte in nome dell'umanità e della civiltà, è condannato a incarnare il torto (il male) assoluto. Necessariamente questa logica, nella misura in cui fa ricadere il nemico nella fattispecie penalistica del criminale, riconfigura la guerra come «azione di polizia». Così quella legittimità che una parte trova in nome dell'umanità, l'altra la ritrova nell'appello religioso alla guerra santa. «Guerra giusta e guerra santa si riflettono l'una nell'altra. Insieme costituiscono una simmetria delle asimmetrie», scrive Münkler.

Con lo stesso gesto con il quale l'Occidente rigetta da sé la guerra santa come un prodotto del fondamentalismo religioso di fanatici mediorientali, senza comprenderla invece come parte di quella asimmetrizzazione della guerra da esso stesso messa in essere, allo stesso modo cerca di spiegare con motivazioni irrazionali, ad esempio con ataviche rivalità etniche o tribali, le cause delle nuove guerre. Una chiave di lettura autoconsolatoria e, soprattutto, autoassolutoria per l'Occidente che ha funzionato nel conflitto dei Balcani, nel cuore dell'Europa, e che continua ad essere applicata alle guerre - taciute e rimosse - dell'Africa. Ma il velo della distanza, del lontano-da-noi, cade non appena si punti lo sguardo sulla specifica razionalità economica delle nuove guerre: non soltanto a quella degli oleodotti e delle risorse petrolifere, ma anche a quella ben piú immediata dei warlords che, nel vuoto di potere lasciato dal declino della sovranità statale, possono usare il loro potere per garantirsi profitti e guadagni straordinari attraverso la rapina e il dirottamento di merci, non ultime quelle degli aiuti umanitari, divenuti sempre di piú una risorsa per l'autofinanziamento delle nuove guerre.

Non solo. Nel quadro delle nuove guerre asimmetriche anche il terrorismo può presentare una sua perversa razionalità verso lo scopo. Come la strategia con la quale piccoli gruppi, militarmente deboli, tentano di attaccare una superpotenza, utilizzando anche i media come armi per dare il massimo risalto ai loro attacchi: «Nella guerra asimmetrica i media stessi sono diventati una mezzo per condurre la guerra», sottolinea Münkler. Il terrorismo si configura quindi, secondo lo studioso tedesco, non solo come reazione a un'asimmetria «culturale, militare, economica e tecnologica», ma come risposta attraverso la «strategia dell'asimmetria a questa costellazione asimmetrica».

La guerra al terrorismo, vale a dire a un nemico indefinito e che tale deve restare, lascia continuamente aperta la possibilità di decidere, in casa propria e fuori di casa, chi è terrorista da un lato, e mette radicalmente in crisi il concetto di neutralità, dall'altro. E' questa una ricaduta non secondaria della Revolution in military affaire. Là dove l'ordinamento giuridico internazionale è sospeso, se non radicalmente obliterato, dal perseguimento della giustizia in una guerra fatta in nome dell'umanità, qualsiasi dichiarazione di neutralità rischia di trovarsi in una posizione sospetta. Scrive Münkler che «la guerra odierna contro il terrorismo non conosce nessuna neutralità: chi, in tale guerra, non sta dalla parte degli Stati uniti è, come afferma il presidente americano, contro di essi». Questo rappresenta un passaggio importante che non va semplicemente letto come ulteriore conferma dell'arroganza del potere degli Stati uniti. La fine della neutralità va letta piuttosto in connessione al suo carattere in ultima istanza storicamente contingente, in quanto legato all'epoca della statualità e della guerra simmetrica, mentre la crescente asimmetria della guerra farebbe collassare l'idea stessa di neutralità. È sintomatico che Münkler affronti questo tema nel capitolo dedicato ai profughi e agli aiuti umanitari.

Lo studioso tedesco mostra che in una crescente asimmetrizzazione della guerra ogni mezzo mediatico diventa uno strumento bellico, finanche la presentazione dei profughi, dei bambini e delle donne in lacrime. Ma c'è, probabilmente, qualcosa di piú. Oggi il controllo dei migranti è parte integrante della politica di sicurezza del primo mondo, e le migrazioni vengono sempre piú spesso considerate incunaboli del terrorismo. Il controllo militare dei flussi migratori, la criminalizzazione del migrante, la blindatura degli Stati occidentali mostrano come l'asimmetrizzazione della guerra tenda progressivamente a produrre una divisione tra «noi» e «loro», trasformando il migrante in un prolungamento del terrorista. Proprio su questo nessuna neutralità è possibile. Assumere una posizione neutrale, non solo verso la guerra, ma verso le politiche che tendono a colpire i migranti, significa posizionarsi da una parte di quella contrapposizione. Assumere invece fino in fondo la fine di ogni neutralità non significa sottostare a quella partizione, scegliere tra un «noi» un «loro». Significa piuttosto porsi al di là di quella falsa contrapposizione.

Supporta il manifesto e l'informazione indipendente

Il manifesto, nato come rivista nel 1969, è sinonimo di testata libera, indipendente e tagliente.
Logo archivio storico del manifesto
L'archivio storico del manifesto è un progetto del manifesto pubblicato gratis su Internet e aperto a tutti.
Vai al manifesto.it