SPECIALE

Quella «giraffa» a Roma

CASTELLINA LUCIANA,ITALIA

«Il PCI - amava ripetere Togliatti - è una giraffa». Intendeva dire che era un animale bizzarro, anomalo, molto dissimile dagli altri partiti comunisti. Ebbene, Aldo Natoli è stato, sin dall'inizio, una giraffa nella giraffa e io, quando l'ho incontrato per la prima volta, sono in effetti rimasta sbalordita. Era il 18 novembre 1947 e si votava per le elezioni amministrative di Roma: la sinistra unita nel Blocco del Popolo, simbolo l'effige di Garibaldi. La sera prima, in una colluttazione fra ragazzi che attaccavano gli ultimi manifesti, a Piazza Vittorio, un giovane democristiano, Gervasio Federici, era rimasto sul terreno, ammazzato. Furono accusati e arrestati a casa loro molte ore dopo un gruppo di giovani comunisti. Erano tempi feroci e la provocazione all'ordine del giorno. Questa era destinata a influenzare il voto e lo influenzò, seminando il terrore dei «rossi». Ricordo bene quel giorno perché fu quel giorno che, rompendo i restanti indugi, chiesi la tessera del PCI, misi piede per la prima volta nella sede della Federazione romana e conobbi Aldo Natoli, che poco dopo ne divenne segretario. Io, certo, sapevo che i comunisti non mangiavano i bambini, ma per una ragazzetta come ero io non era da poco scoprire, in quel duro `47, la guerra fredda appena scatenata, l'anticomunismo più rozzo all'apice, che il capo dei «rossi» della capitale era un intellettuale particolarmente raffinato, sotto il braccio sempre opere letterarie preziose o un disco di musica del `700 («dopo non c'è più stata musica all'altezza», ricordo che mi disse nella prima conversazione personalizzata e le sue parole hanno segnato il mio gusto da allora). Negli anni successivi, nelle tante riunioni nello stanzone di piazza S. Andrea della Valle, o nel salone della sezione Ponte Regola, in via Banchi di S. Spirito, dove si tenevano gli «attivi» del martedì, ho avuto modo di capire che quell'intellettuale così difforme dal cliché dei dirigenti «rossi» dell'epoca era anche il leader riconosciuto - amato, stimato - dei comunisti romani. L'uomo di cui avevano fiducia, non solo per le sue analisi brillanti (ricordo il suo rapporto sull'edilizia romana, al terzo congresso della Federazione, nel dicembre del `47 - pochi mesi dopo uno sfortunato sciopero generale per le case popolari e il risanamento delle borgate - in cui individuò il nemico vero, la proprietà fondiaria dell'aristocrazia nera e l'incipiente affarismo bancario, contro ogni iimpostazione assistenzialista); ma anche nei momenti drammatici, nel fuoco dello scontro. Ho ancora impressa nella memoria la sua immagine quel 14 luglio 1948 quando, solo poche ore dopo l'attentato a Togliatti si riversò sul centro di Roma paralizzato da un immediato sciopero generale, a bordo di improvvisati gremiti trasporti, il popolo inferocito delle borgate e tutto poteva accadere. A piazza Colonna furono Aldo Natoli e, se non ricordo male, Sandro Pertini, a cercare di calmare i compagni, a far defluire il corteo. Solo l'autorità indiscussa che gli veniva riconosciuta poteva riuscire. Aveva alle spalle, è vero, la lotta clandestina e il carcere che gli avevano dato prestigio; e aveva il sostegno di Edoardo D'Onofrio, un uomo che da lui non avrebbe potuto esser più diverso e che però ebbe la lungimiranza di sceglierlo come suo delfino e che a tutti noi, in un PCI ancora tanto operaista, insegnò a occuparci del sottoproletariato della cintura rossa senza disprezzare né ladri né puttane, ma senza nemmeno populismo o compiacimento, e anzi per portare a Primavalle o al Tufello cultura e coscienza di classe. E «coscienza nazionale», come si diceva allora. (Non è un caso se quando, nel `60, scoppiò nel Partito la polemica su Pasolini, quel gruppo dirigente si schierò dalla parte dell'autore di «Una vita violenta»). E' così che è stato costruito il «partito nuovo», anomalo come una giraffa. Poi sono accadute tante cose e nel `69 ci siamo ritrovati, con Aldo, nel Manifesto. Ma in occasione del suo novantesimo compleanno ho voluto ricordare qui le pagine più antiche della sua storia di militante comunista, quegli anni in cui il centro delle nostre vite era quel palazzo un po' scalcinato all'angolo fra corso Rinascimento e corso Vittorio, negli uffici e alla mensa dove per tanto tempo abbiamo continuato a consumare tutti assieme il pasto di mezzogiorno e dove molti di noi, un po' più giovani, hanno imparato quasi tutto.

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