VISIONI

Riflessioni sul mito del Golem

LORRAI MARCELLO,VENEZIA

«Non vorrei mai fare parte di una comunità che potrebbe ammettermi fra i suoi membri». Parafrasando Groucho Marx («comunità» al posto di «club»), Gary Lucas si sottrae con una battuta al rischio di una identificazione con una entità collettiva che vive evidentemente - e non a torto - come uno schiacciamento e una limitazione. Nel corso di un incontro pubblico alla vigilia della giornata della Biennale Musica che il direttore artistico Uri Caine ha voluto imperniare su proposte che fanno riferimento alla cultura ebraica a Lucas viene chiesto di esprimere come esponente della comunità dell'ebraismo newyorkese (che Lucas stesso definisce post-moderno) un'opinione rispetto ad altri settori del mondo ebraico. Ma Lucas, nei primi anni 80 chitarrista con Captain Beefheart, si smarca da un incasellamento identitario: «vivo a New York quasi per caso - spiega - e il mio cuore è in diversi luoghi del pianeta. Mi sento cittadino del mondo, un mondo di cui Israele è solo un aspetto». Non che Lucas, che presenta la risonorizzazione dal vivo di Der Golem a cui si dedica da anni, si sottragga dal prendere, più o meno esplicitamente, posizione. Col sorriso serafico che non lo abbandona mai spiega che nella sua riproposizione del Golem, il film del 1920 che è considerato un capostipite dell'espressionismo cinematografico, diversi critici hanno visto una allusione alla politica di Israele: «quello che voglio fare con i miei lavori è appunto creare delle discussioni, fare riflettere». E ricorda poi che se quello del Golem, il proto Frankenstein creato per proteggere la comunità che poi però sfugge al controllo del suo artefice, è un mito specificamente ebraico, a ben vedere di golem è piena la storia: «il termine risale alla Bibbia, dove compare per la prima volta per indicare Adamo, creato da Dio. Non c'è solo Israele: di golem ne sapete qualcosa anche voi. E dire che adesso in questo paese c'è chi sostiene che Mussolini non ha mai fatto male a una mosca», ironizza alludendo a due golem in una volta sola. Appena terminata la proiezione della bellissima pellicola di Paul Wegener e Carl Boese, che il musicista ha accompagnato con chitarra elettrica, acustica ed elettronica, Lucas approfitta dell'applauso per rivolgersi alla platea con immediata comunicativa: «c'è chi ha trovato questo film antisemita: si vede che i nazisti non se ne erano accorti, visto che lo vietarono. Ai nazisti non piaceva che nel Golem gli ebrei apparissero gente che fa miracoli: cosa che, peraltro - aggiunge col solito sorriso sornione - è assolutamente vera». Tra un Gary Lucas, che, in equilibrio fra scavo sulla propria tradizione di provenienza e passione per il cinema fantastico e dell'orrore, riporta in vita il Golem senza temere che vi si possano avvertire risonanze di attualità mediorientale, e un Richard Teitelbaum, che mette in scena la storia del rabbino Z'vi, è confortante, di fronte a degli artisti americani che lavorano intorno alla cultura della propria origine ebraica, sentirsi distanti da certe chiusure.

Teitelbaum non è certo nuovo di Venezia. C'è stata un'epoca in cui i giovani americani che aspiravano a comporre musica contemporanea innovativa venivano a studiare in Italia, e nel `65 Teitelbaum era in Laguna per imparare da Luigi Nono, e ne deve avere ricavato non solo delle lezioni compositive, ma anche delle lezioni di rapporto fra musica e realtà. L'Italia di alcuni decenni fa per Teitelbaum è stata anche Musica Elettronica Viva, intestazione italiana per un gruppo (a dominante ebraica: Curran, Lacy, Rzewski...) di americani che a Roma tentavano con un pionieristico live electronics un'alternativa all'importante ma laborioso, costoso e non flessibile lavoro dell'elettronica «pesante», di studio, come quello dell'allora prestigiosissimo Studio di Fonologia della Rai di Milano. Poi molte altre esperienze, fra cui il memorabile sodalizio con Anthony Braxton, alfiere dell'avanguardia nera chicagoana. Oggi Teitelbaum dichiara di essere interessato, più che alla sperimentazione in sé, a «parlare al cuore», che è quello che fa, con un'operazione semplice, quasi ingenua, ma anche toccante, con il lavoro dedicato a Z'vi, secondo momento, ancora in progress, di una trilogia che si è aperta con una sua rivisitazione del mito del Golem.

Z'vi nasce a Smirne nel 600. Una volta diventato rabbino si distingue per scelte stravaganti ed eterodosse (sposta il giorno del riposo settimanale, fa partecipare le donne ai servizi in sinagoga) che gli valgono la scomunica. Z'vi gira allora per una quindicina d'anni nel bacino del Mediterraneo, comincia a proclamarsi Messia e raccoglie vasti consensi, tanto da decidere di annunciarsi come Messia direttamente all'impero ottomano. Subito arrestato, viene messo di fronte all'alternativa: o convertirsi all'Islam o sottoporsi a una prova, quella di essere bersagliato da un'arciere, sopravvivendo - eventualmente - alla quale dimostrerà di essere davvero il Messia. Z'vi sceglie di convertirsi, e naturalmente una buona parte dei suoi seguaci a questo punto lo abbandonano. «Ma non tutti - ha spiegato Teitelbaum - e addirittura delle criptocomunità di adepti della dottrina di Z'vi esistono tutt'ora in diverse parti del mondo, fra cui in Turchia, dove pare se ne trovino anche nelle alte sfere del governo e dell'economia. Quello che mi interessa è proprio quello che nasce dalla conversione di Z'vi, che continua contemporaneamente a praticare anche il giudaismo, e cioè la formazione di una religione di tipo sincretistico: mi interessa il tentativo di Z'vi di operare una riconciliazione fra il giudaismo e l'islam». Una ricomposizione che nell'abbozzo del lavoro presentato alla Biennale ha il suo corrispettivo nella partecipazione di musicisti appartenenti ad entrambi i mondi e le confessioni: oltre a Teitelbaum, sono sul palco Jacob Ben-Zion Mendelson, tenore operistico e insieme specialista di canto sinagogale, David Krakauer, clarinettista, uno dei leader del filone klezmer contemporaneo, Omar Faruk Tekbilek, virtuoso di flauto ney, liuto e derbuka, e Zafer Tawil, crescito a Gerusalemme, che utilizza percussioni, violino e ud interpretando musica araba e classica egiziana. E il momento in cui, andando verso la fine di questo schizzo dell'opera, Tekbilek insegna a Mendelson/Z'vi a cantare una canzone che inneggia ad Allah è di notevole suggestione, così come le parole di un testo sufi che hanno suggellato la rappresentazione: «il mio cuore può assumere qualsiasi forma... tavole per la Torà, rotoli per il Corano».

La serata specificamente dedicata alla musica e alla cultura ebraiche è continuata con la veronese Meshuge Klezmer Band: che ha il merito di proporre una lettura del klezmer certo non corriva e ovvia, approcciandolo in maniera sofisticata, e restituendocelo in una chiave rarefatta; una scelta che ha forse il difetto di prescindere persino troppo dalla natura di musica sì venata di malinconia ma anche popolarmente estatica e da ballo del klezmer.

A proposito di quello che il klezmer è stato storicamente, di qua e di là dall'oceano, in chiusura David Krakauer ha dato una prova eccellente del felice paradosso di cui è protagonista. Il klezmer revival americano tende in generale a espungere abbondantemente dalla propria musica il pathos per significare sul piano musicale la specificità di un'esperienza come quella degli ebrei nati in America o addirittura di famiglie che sono americane da secoli, e che quindi non hanno vissuto sulla propria pelle la persecuzione e lo sterminio e hanno una diversa percezione di sé come ebrei. Krakauer invece, che pure con la sua musica abbondantemente iniettata di funk e di rock è assai meno convenzionale nel rapporto con gli stilemi di questo genere rispetto alla media del klezmer revival, si fa apprezzare per una coinvolgente carica emotiva, oltre che per virtù improvvisative di tutto rispetto. In questo senso, con una musica brillante e spregiudicatamente moderna, Krakauer ha una rapporto con la tradizione molto più reale e di sostanza di tanto altro klezmer americano. E il richiamo, con un paio di brani del concerto, a Naftule Brandwein (uno dei due grandi clarinettisti responsabili del trapianto del klezmer nelle nuove condizioni di vita degli ebrei immigrati negli Usa nel 900) è apparso così tutt'altro che rituale e di facciata.

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