CULTURA

Rwanda, un massacro dimenticato

TOMMASINO PIER MATTIA,RUANDA

Alla luce della visita che Bush ha condotto in vari paesi africani, per estendere anche all'Africa il Nuovo Ordine Mondiale, sarebbe utile sfogliare Istruzioni per un genocidio di Daniele Scaglione, appena pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele (pp. 160, € 12). Tra l'oblio totale dell'Africa che l'ha resa, e il vagheggiamento letterario degli afflitti di mal d'africa che, nella loro nostalgia di scrittori-viaggiatori, cercano di «vomitare questa porca anima europea» vi sarebbe una terza possibilità. La prefazione di Mimmo Candido individua questa terza via proprio nel libro-ricerca di Scaglione.

Scrive l'autore: «L'11 settembre del 2001 l'attentato al World Trade Center ha causato la morte di 2.893 persone. Dal 6 aprile al 19 luglio del 1994 è come se in Rwanda le Twin Towers fossero state abbattute tre volte al giorno. Tre volte al giorno, entrambe le torri distrutte, per 104 giorni di fila.» Questa sembra la linea adottata dall'autore, linea di denuncia e memoria di un massacro che non può essere dimenticato, soprattutto ora che gli Usa tornano, con la loro prepotenza, a dettare legge e prommetere aiuti nel continente africano.

A quasi dieci anni dal massacro rwandese, l'autore ricostruisce il genocidio del 1994, «secondo solo a Auschiwitz», ripercorrendo la storia del paese dall'indipendenza ai giorni del massacro, e mette in luce la connivenza dell'Occidente e le conseguenze di quel massacro, ad esempio la guerra nel Congo (oggi di estrema attualità, accanto alla situazione liberiana, alle rivolte in Burundi, agli scioperi in Nigeria) e la sconfitta dell'Onu come organo «portatore di pace».

Scaglione, presidente di Amnesty International per quattro anni, ed esperto del «paese dalle mille colline», svela come le divisioni etniche siano state portate alle estreme conseguenze dal colonialismo, tedesco prima e belga poi, che ha consegnato il potere nelle mani della minoranza tutsi, potere rovesciato dagli hutu che prenderanno il comando dopo la «rivoluzione sociale» del 1961, proclamando la Repubblica del Rwanda, guidata da Kayibanda e in seguito dal corrotto Habyarimana, con l'aiuto del clan Akazu e della Francia di Mitterand.

L'autore, forse immedesimandosi troppo nella figura di Roméo Dallaire, il generale «inascoltato» che guidava i caschi blu in Rwanda, denuncia le colpe dell'Onu (nelle persone di Boutros Ghali, Kofi Annan, Iqbal Riza, Maurice Baril) definendole «crimini politici», della chiesa cattolica rwandese e degli Usa, così solletici a preventivare guerre ma non a prevenire massacri, che non sono riusciti o non hanno voluto, dopo le sconfitte dell'Unosom in Somalia, sradicare l'Hutu Power e fermare il genocidio dei tutsi.

Al catastrofico fallimento dell'Unamir avrebbe contribuito l'ingerenza della Francia che, per confermare la propria presenza nella ricca zona dei Laghi, ha trasformato in pochi anni il piccolo paese centro africano in un arsenale da guerra.

La causa del genocidio non fu «uno scontro folle di risentimenti tribali», come fu detto dai mezzi di distrazione di massa occidentali, ma una pianificazione raffinatissima che utilizzò radio, giornali e cantautori (alla stregua di Julius Streicher che dalle pagine del suo settimanale Der Stürmer incitava allo sterminio degli ebrei) per fomentare tutte le classi sociali e fornire le liste dei tutsi da uccidere. Il genocidio era ben noto, ma fu ignorato anche da altre nazioni europee, compresa l'Italia, che furono scrupolosissime a evacuare i loro connazionali dalla capitale Kigali, e a dimenticare le migliaia di rwandesi che finivano sgozzati sotto i machete degli interhamwe, ubriachi di birra di banane.

Scaglione, dotato di una distesa narrazione più che di fine analisi politica, ci lascia con il suo libro anche un tentativo di analisi del ruolo degli attivisti per i diritti umani, che ha tutto il sapore del mea culpa: «Noi di Amnesty International siamo stati colti impreparati dai fatti del Rwanda, forse perché impegnati allo spasimo a indagare le violazioni dei diritti umani in tutto il mondo non ne abbiamo colto la specificità, l'unicità. Probabilmente non abbiamo ancora riflettuto a sufficienza su quale lezione dovremmo trarre da quell'evento.»

Il lettore potrebbe chiedersi in che direzione si rivolga la riflessione di Kofi Annan su quegli eventi. Secondo quanto riporta un'intervista fatta per il New Yorker di Philip Gourevitch e apparsa in Italia su Internazionale (18-23 aprile 2003), le reazioni Annan, che visitò il Rwanda nel 1998 furono contrastanti. Prima espresse il suo cordoglio: «Dobbiamo ammettere che il mondo ha abbandonato il Rwanda in quel periodo di malvagità», ma a chi commentava il fatto che l'allarme di Dallaire fosse stato lanciato tre mesi prima del genocidio, rispose: «È aria fritta e rifritta». Il suo imbarazzo fu risolto un anno dopo quando dichiarò il suo fallimento: «A nome delle Nazioni unite riconosco questo fallimento ed esprimo il mio più profondo rimorso».

Ci concediamo ancora una nota di Scaglione che, in questi tempi di caccia alle streghe saracene e di crociata culturale, dovrebbe far riflettere: «L'unica comunità religiosa che sin dall'inizio contrastò senza ambiguità il genocidio fu quella musulmana».



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