VISIONI

Ornette, un sax dritto al cuore

ONORI LUIGI,PERUGIA

Umbria Jazz incalza con i concerti della cantante Patricia Barber, degli artisti brasiliani Gilberto Gil, Maria Bethania e João Gilberto, della rock-star Van Morrison, degli altisti Phil Woods e Lee Konitz, dei jazzisti italiani da Nicola Arigliano ad Enrico Rava (14-15 luglio). Un picco artistico la manifestazione l'ha già raggiunto nella sua seconda giornata, quando le note tese e dolenti di Lonely Woman hanno chiuso tra gli applausi il recital di Ornette Coleman (sabato a Roma). È il 13 luglio 2003 e dalla prima registrazione di quel celebre brano sono passati più di quarant'anni; l'altosassofonista, padre del free jazz, ne ha 73 ed un pubblico entusiasta si è affollato in piedi sotto il palco dell'arena Santa Giuliana per applaudire non un mito ma un universo sonoro che sa ancora arrivare al cuore e alla mente. Certo Coleman è un gigante della musica afroamericana ma è anche un artista rigorosissimo e rivoluzionario che ha portato avanti nei decenni un jazz che è profondamente diverso da tanto mainstream, per quanto perfetto, che si sente in giro. Non c'è nulla di intrattenitorio o consolatorio nella sua estetica che, tuttavia, genera una musica dei sentimenti dalla presa emotiva fortissima. Quando a tempo libero il suo sax alto tesse lente melodie intrise di blues, quando su tempi iperveloci il fraseggio guizza nei riff ripetuti e ultradinamici, quando Coleman insiste sui salti di registro, sui colori strumentali così vocalizzanti del suo strumento è poesia quella che si sprigiona.

A Perugia il musicista texano - è nato a Fort Worth nel 1930 - ha proposto un organico inedito con due contrabbassi, affidati rispettivamente a Greg Cohen e a Tony Falanga (spesso impegnato con l'archetto), più la batteria del figlio Denardo. Bisogna riandare a Free Jazz (1961) con il suo doppio quartetto oppure alle edizioni del Prime Time elettrico per avere un raddoppio dei bassi. È una combinazione efficacissima, dato che Cohen è in continua propulsione (unendo senza confini accompagnamento ed assolo) mentre Falanga assume spesso il ruolo di seconda voce, con un archettato dall'impostazione classica e fremente che ricorda David Izenzon. Denardo entra ed esce dalla musica con sapiente uso ora dei piatti ora dei tom, con scansioni libere ed ariose oppure incalzanti e ripetitive, quasi robotiche. In ogni brano la tessitura tende a cambiare, con i quattro strumenti liberi di fluttuare su piani diversi - secondo i dettami dell'armolodia ornettiana - ma sempre pronti a repentine convergenze, ad esplosioni caleidoscopiche. Talvolta i due contrabbassi generano un magmatico tappeto solcato dalle scale ascendenti di Coleman, dalle sue brevi frasi saettanti; in altri casi pizzicato ed archettato creano due dimensioni complementari, magari a tempo lento e l'altosassofonista inventa fraseggi a velocità diverse. Difficile riconoscere singoli brani perché Coleman ed i suoi musicisti ne citano ed eseguono più di una quindicina: è davvero un concentrato della produzione di Ornette con riferimenti, tra gli altri, a Song X, Mothers & Fathers, Tone Dialing, Spelling the Alphabet, Una Muy Bonita. Ispirazione dunque, ed un universo sonoro in continua evoluzione; anche il polistrumentismo di Coleman ha trovato conferma in lapidari interventi alla tromba ed in un solo episodio al violino quando si è costituito un inedito trio d'archi di folgorante bellezza. Un concerto memorabile, un rito sonoro collettivo che conferma l'attualità del jazz ornettiano.

Sempre nella serata del 13 la musica round midnight si è officiata al teatro Morlacchi (con il quartetto di Herbie Hancock), all'oratorio Santa Cecilia (con il trio di Bill Charlap arricchito da Peter e Kenny Washington) alla Bottega del Vino (con gli artisti di New Orleans Kim Prevost e Bill Solley). Appuntamento di rilievo quello con Hancock sia per la statura, indiscussa, del personaggio sia per il reincontro con il vibrafonista Bobby Hutcherson, supportati da una delle migliori ritmiche della nuova generazione: Scott Colley al contrabbasso e Terri Lyne Carrington alla batteria. Il meeting tra i due jazzisti non si è improntato alla routine, rivelandosi piuttosto dialettico e tensivo. Hancock ha lavorato sul ritmo e sugli accordi: è un musicista che tende alla complessità, alla elaborazione, molto cerebrale eppure capace di non perdere il filo del discorso sonoro e del contatto col pubblico. Hutcherson non è mai stato un virtuoso ma ha una scelta di tempo formidabile, ama mettersi in gioco, sa lavorare sulla melodia come sul ritmo con gusto sicuro. Si trattasse di I Love You, di Dolphin Dance o della chiaroscurale ballad del vibrafonista November, il quartetto ha dato sempre il meglio in un clima creativamente e positivamente teso. L'attesa degli appassionati si appunta adesso su Sonny Rollins (domani all'Arena Santa Giuliana).

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