CULTURA

Il gioco della verità nella scrittura

LA PORTA FILIPPO,ITALIA/MILANO

AGiuseppe Pontiggia, nato a Como il 25 settembre del 1934 e scomparso ieri notte nella sua casa milanese per un collasso cardiocircolatorio, non piacevano le metafore imprecise. In un pomeriggio di qualche anno fa parlando di editoria al pubblico di una biblioteca milanese periferica spiegò quanto sia fuorviante una frase che si sente dire spesso, per protesta contro lo strapotere dei manager nelle case editrici: «Fare i libri non è come fare saponette». Al contrario, produrre saponette - ci ricordava - sembra sia una cosa molto complicata, che richiede perizia tecnica, esperienza artigianale e creatività, e che si traduce poi in una straordinaria varietà merceologica. Il linguaggio è da sempre al centro degli interessi di Pontiggia. Ma in che modo? Non nel senso di un orientamento formalistico o accentuatamente sperimentale (in questo senso andrebbe ricordato solo un romanzo un po' solitario, L'arte della fuga, del 1968, oltre alla sua esperienza giovanile nella rivista «Il Verri») ma come questione della Realtà, come possibilità di ritrovare un contatto con le cose, con il mondo di fuori, con gli altri.

In uno dei suoi racconti più belli, Il gioco della verità, del 1983 (ora compreso nell'Oscar Mondadori della La morte in banca), il vecchio e gracile poeta assiste su un lungomare immalinconito dal crepuscolo al silenzioso franare del suo stesso cervello. Non ricorda più le parole con cui nominare le cose, ma soltanto il loro numero di sillabe. E, sollecitato dalla giornalista di una radio locale, a fare il gioco della verità, scopre la vacuità, la perversione della comunicazione contemporanea, incapace di distinguere tra vero e falso.

Si potrebbe parlare di una severa, vibrante etica del linguaggio, che dal suo romanzo d'esordio, La morte in banca (1959), originale rilettura del filone narrativo sugli impiegati, fino all'intenso Nati due volte (2001, Premio Campiello), e passando per Il giocatore invisibile (1978), il Raggio d'ombra (1983), La grande sera (1989, Premio Strega)Vite di uomini non illustri (1993, Super Flaiano) contrappone i valori calviniani della precisione e della rapidità, ma aggiungeremmo della trasparenza emotiva, alla lingua inerte della Burocrazia, dell'Ideologia, della Pubblicità.

Sulla sua opera narrativa, di forte ispirazione autobiografica, e sul tentativo di conciliare affabilità comunicativa e forte tensione espressiva, avremo modo di tornare per un giudizio più meditato. Ma ora vorrei ricordare soprattutto alcuni folgoranti volumi di saggi, - L'isola volante (1996), I contemporanei del futuro (1998) e il recente Prima persona, nei quali si esprime compiutamente la sua vocazione di saggista acutissimo e di moralista classico, di critico della cultura e di polemista (benché in modi garbati).

Eppure dietro l'apparente understatement e una prosa educatissima Giuseppe Pontiggia fa trasparire la sua idea acuminata di letteratura, intesa in un senso davvero «inattuale» come forza contundente e rivelazione di sé. E anche se la critica o la satira non arrivano mai in lui a un punto apocalittico di rottura radicale, di non ritorno. Non per mancanza di coscienza tragica ma probabilmente per una fede ostinata nella comunicazione, per il senso di una umanità comune, che ritroviamo poi nella sua esperienza didattica oltre che nella vera passione con cui svolse il ruolo di consulente editoriale.

Dopo l'esperienza in banca insegnò infatti a lungo nei corsi serali di un istituto tecnico e in anni recenti nelle scuole di scrittura creativa, dove le sue lezioni si segnalavano per rigore e generosa intelligenza. Del resto l'interesse per le questioni compositive della letteratura già emergono con la sua tesi di laurea del 1959 sulla tecnica narrativa di Italo Svevo (ripubblicate proprio quest'anno dalla bella rivista «Kamen») Le sue osservazioni - qui contenute - sul punto di vista, sui personaggi, sul paesaggio, sul dialogo etc, valgono interi trattati di narratologia.

Ma ripensando a Giuseppe Pontiggia, alla sua gentilezza d'animo, alla sua pietas verso tutte le creature, al suo amore per la lingua e per la tradizione, vorrei ricordare una frase tratta dal citato I contemporanei del futuro: «Per la prima volta non si lotta più con il passato, lo si ignora».

Già, al culto degli antichi è subentrata l'indifferenza e ha ovunque vinto la massa «volubile e suggestionabile del mercato». Ma proprio il critico letterario, secondo Pontiggia, ha il dovere di suggerire dei dubbi e di reintrodurre una visione comparativa della letteratura, che ristabilisca, con il rischio di una scelta personale, le necessarie gerarchie e differenze qualitative.

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