VISIONI

Cuore ritmico Womad

CORZANI VALERIO,TAORMINA

Il trasloco, per un festival nomade, è più un'occasione che un disturbo. E in quest'ottica devono averla intesa i responsabili italiani della kermesse ideata da Peter Gabriel nel 1982 costretti a trasferire concerti e workshop piuttosto precipitosamente (il festival di solito veniva celebrato in agosto) da Palermo a Taormina. Dal rococò del Teatro di Verdura alle antiche vestigia del Teatro Greco, da una meraviglia all'altra, da una location suggestiva ad una perla inimitabile. Tre giorni di musica. La solita rutilante passerella di artisti provenienti da ogni parte del globo con la peculiarità nell'edizione sicula di un nutrito pacchetto di proposte autoctone: l'impressionismo neo ambient dei Sun, lo ska sudista di Roy Paci, la world music un po' troppo agglomerante (c'era un abuso di stilemi sonori) di quei Zongaje nati dalle ceneri di uno storico gruppo come i Kunsertu, il ragga allegro e stordito dei Tinturia. Nel pacchetto italico, non più siculo ma partenopeo, va inserito anche il progetto nuovo nuovo di Enzo Avitabile celebrato insieme all'ensemble dei Bottari. Botti piccole, medie e grandissime percosse vorticosamente insieme a falci che regalavano il timbro metallico ad un groove timbrico davvero portentoso pompato da questo gruppo tradizionale campano. Groove che si andava ad assemblare al rap, spesso onomatopeico, di Avitabile. Una bella alchimia, che sta per venire alla luce anche in veste discografica e che però avremmo preferito vedere celebrata con meno gigioneria dal vocalist napoletano (il quale ha cercato con foga troppo esplicita e continua il coinvolgimento del pubblico) e qualche ulteriore fantasia d'arrangiamento. Discorso analogo va fatto per i texani Ozomatli, bravi a creare l'atmosfera della festa, molto meno a declinare seguendo una logica sincretica il folto mix di stili (latin, hip hop, ska, rock, jazz) scelti come corredo di riferimento. Un esercizio riuscito molto più efficacemente ai messicani Los de Abajo, segnalati, almeno virtualmente, a Peter Gabriel da David Byrne. Patchanka urbana, aggressiva e insieme refrigerante introdotta nella stessa sera da quel vero e proprio reperto degli anni settanta brasiliani che sono i fratelli Fritz del Trio Mocotò. Non un trio a dire il vero, ma un sestetto che si applica oggi alla vena aurifera del modernariato con un samba fusion di pregevole, ancorché anacronistica, fattura. Archiviato il deludente set degli attesissimi 1 Giant Leap, progetto più discografico che concertistico votato alla distillazione di un trip hop di marca multietnica piuttosto annacquato e salutati più o meno nello stesso modo anche gli Afrocelts, un'utopia ecumenica di radici afro e celtiche filtrate attraverso il passpartout dell'elettronica, vanno segnalate invece due note liete arrivate a Taormina direttamente dal cuore dell'Africa. Dapprima le complicate tessiture ritmiche della musica del Mali, sparate in salsa electro dal gruppo di Salif Keita. Una proposta rutilante e barocca nella quale strumenti di zucca e chitarre elettriche imprimevano la stessa accelerazione ritmiche mentre una sorta di anfora amplificata regalava tonfi ritmici ossessivi da cassa house. A ribadire il concetto, è arrivato infine anche il colorito ensemble dei Badenya Les Frères Coulibaly. Nati a Nauna, nella parte nord del Burkina Faso, i fratelli Coulibaly avevano a Taormina il ruolo impegnativo d'interpretare il corrispettivo traditional del set parossistico di Keita: strumenti provenienti dalla stessa area, cori e interventi vocali declinati secondo l'identico schema call & response, interventi danzanti delle coriste calibrati seguendo mosse parenti. Missione compiuta, con il pubblico del Womad che si è stretto in un cerchio danzante, intonato direttamente dal cuore pulsante di un pezzo d'Africa.

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