CULTURA

Una inferriata in riva al mare

SOSSI FEDERICA,ITALIA/LECCE

Si potrebbe immaginare la seguente scena: sera inoltrata, all'uscita da un bar un «normale» controllo di polizia, due, tra le persone controllate, non hanno con sé i documenti. Vengono fermate e arrestate. Trascorrono i loro giorni nella stessa cella, condividono il cibo e la parola, poi una delle due viene rilasciata, è trascorso un mese, ed è questa la durata massima dell'arresto previsto dalla legge italiana nel caso di mancata esibizione dei documenti di identificazione. L'altra persona verrà a sua volta rilasciata, ma cinque mesi dopo. Si potrebbe immaginare anche la seguente scena: paesaggio marino, una macchina si accosta sulla strada sterrata accanto agli scogli, dalla macchina scendono alcune donne e un bambino, non si dirigono verso il mare ma si fanno aprire dai carabinieri un alto cancello a inferriate ed entrano nell'unica struttura abitativa della zona, poi si apre un altro cancello, passano tra carabinieri e persone detenute all'interno di quella struttura, si apre un ulteriore cancello e scompaiono. Abitano lì, le donne e il bambino. Una di queste due scene è soltanto immaginata, l'altra la si può scorgere tutti i giorni nei pressi di Lecce. Trascinati dal proprio istinto voyeuristico si potrebbero precisare ulteriormente i tratti della scena reale. Non quella della cella, ma quella del bambino. Applicando il proprio occhio a una piccolissima fessura del cancello di ferro dietro a cui il bambino ero scomparso, si potrebbero scorgere, infatti, altri due o tre bambini nel cortile, un trattore di plastica, un box e una carrozzina, qualche panno steso al sole.

Vivono lì, alcune donne, alcune bambine e alcuni bambini, figlie e figli di quelle donne, sembra che alcuni di loro vi siano addirittura nati, non comunque il bambino sceso con la mamma dalla macchina che vive lì da due anni e ne ha tre. Il posto in cui vivono dovrebbe essere un luogo di protezione e integrazione sociale, previsto da una legge del 1998, in cui far trascorrere non anni ma alcuni mesi alle donne straniere ed eventualmente anche ai loro figli che abbiano deciso di denunciare le situazioni di «violenza o di grave sfruttamento» da esse subite e i loro sfruttatori. Capita, invece, che il posto in cui vivono quelle donne con i loro bambini, non per alcuni mesi, ma per anni, sia all'interno di un Centro di detenzione per stranieri in via di espulsione, nei pressi di Lecce, il cui direttore, insieme ad altri operatori e carabinieri, è da qualche mese indagato per i gravi maltrattamenti subiti dagli stranieri detenuti nel Centro.

Perché raccontare insieme queste due scene? Perché sono possibili a partire dallo stesso testo di legge. Nella scena soltanto immaginata, infatti, la differenza tra le due persone arrestate e poi rilasciate non è né di sesso, né di professione, né di condotta all'interno del carcere, ma unicamente di luogo di provenienza. La persona rilasciata dopo un mese ha la cittadinanza italiana, l'altra è straniera, di cittadinanza non appartenente a uno stato della Comunità europea.

L'esempio di questa differenza viene riportato da Annamaria Rivera nel suo Estranei e nemici. Discriminazione e violenza razzista in Italia (Deriveapprodi, 2003, pp. 157, 13 euro) come uno dei tanti possibili, e certamente «non dei più gravi», per dar conto di una strana categoria di discriminazioni che vanno indagate nella loro storia e origine: quelle «discriminazioni perfettamente legali» che hanno accompagnato l'arrivo degli stranieri in Italia, da tutti falsamente percepito come un fenomeno recentissimo, e che, proprio perché legali, volute e stabilite da testi di legge, passano per lo più inosservate.

L'orizzonte in cui si inserisce e da cui è resa possibile questa forma di discriminazione, che può fare a meno di una forte componente ideologica e dottrinaria, è quello del razzismo istituzionale. Nozione spesso criticata per le sua ambiguità e astrattezza, ma che, secondo Rivera, «resta un categoria utile a mostrare che la discriminazione razzista (...) può presentarsi come un meccanismo opaco e banale, così interiorizzato che coloro che concorrono a riprodurre possono non esserne consapevoli; e che gli stereotipi, le categorizzazioni negative o svalorizzanti, le discriminazioni possono essere così profondamente incorporati nel sistema legale e amministrativo dello Stato da diventare abituale e routinaria modalità di relazione con i minoritari».

Razzismo di stato, l'aveva chiamato Foucault, che scorgeva il suo profilarsi verso la fine del XIX secolo e per indagare l'origine del quale si vedeva costretto a tracciare i contorni di una nuova tecnologia del potere, il bio-potere, che incorporerebbe, integrerebbe e modificherebbe il potere disciplinare. Senza riferirsi al termine foucaultiano, che nell'attuale dibattito rischia effettivamente di diventare un cliché dai contorni imprecisati, Annamaria Rivera ripropone e prova a indagare lo scenario europeo, ma soprattutto italiano, dell'estraneità e dell'inimicizia, o meglio, con un neologismo, della «nemicizzazione», in cui le diverse forme di discriminazione degli stranieri, dei migranti o immigrati, si trasformano in una «microfisica, un sistema di relazioni e di controllo, di imposizioni di norme, di tattiche e funzionamenti, non necessariamente imposto o dettato dall'alto».

Quel che ne emerge è un quadro a dir poco inquietante. A partire dall'origine della discriminazione inscritta nell'idea stessa del moderno stato-nazione, la «naturalizzazione» di una propria appartenenza storica allo stato; passando attraverso le retoriche del «diritto alla differenza», attuale declinazione, post-coloniale, di un'inferiorità che non si lascia più dire nei termini della razza; riportando alcune delle manipolazioni linguistiche al servizio di norme e pratiche palesemente discriminatorie; scegliendo tra le molteplici pratiche di etichettamento soprattutto quelle in grado di creare stereotipi di cui tutti rimaniamo prigionieri (i rom, nomadi per sempre; la parola clandestino come status e condizione permanente; la retorica anti-musulmana che si avvale di meccanismi concettuali e linguistici propri al repertorio dell'antisemitismo storico), i tratti con cui viene delineato il fenomeno del razzismo lo fanno apparire ai nostri occhi più che come un fantasma che accompagna ormai il profilarsi di ogni gesto, azione, parola, istituzionale e non.

Un «di più» che eccede la necessità del conflitto sociale, un «di più» rispetto al quale una spiegazione in termini funzionali, che lo descriva come un'ideologia utile allo sfruttamento economico, rischia di diventare complice della sua sottovalutazione, un «di più» che sta emergendo come «idioma culturale del Belpaese». E in grado, forse, di riproporsi come interrogativo perturbante persino al di là dei tentativi, per ora solo ideali, di poterlo sciogliere nei meccanismi di una cittadinanza «inclusiva ed espansiva, che spezzi il vincolo arcaico che la lega alla nazionalità in favore di un progetto di civitas aperta e fondata sulla residenza», di cui, insieme ad altri, Annamaria Rivera si fa promotrice.

Chiude il libro un inventario dell'intolleranza. Più di 60 pagine di una raccolta «etnografica» di episodi, scelti da Paola Andrisani, con l'intento, riuscito, di illustrare «la rilevanza, la complessità e la gravità del fenomeno in maniera più efficace dei semplici dati statistici». Al suo inventario, articolato in categorie, mi limito ad aggiungere un episodio scelto tra i tanti e forse nemmeno più esempio di intolleranza, ma della nostra «normalità»: un bambino di tre anni che da due vive dietro alle inferriate del Regina Pacis, Centro di detenzione in provincia di Lecce, accanto al mare e «protetto» dai carabinieri e dal direttore del Centro.

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