CULTURA

Baci in cambio di parole

PADOAN DANIELA,ITALIA

Vita di Melania Mazzucco (Rizzoli, pp. 398, € 16) sembra concepito secondo gli esercizi di scrittura dei due prodigiosi bambini gemelli di La Trilogia della città di K. di Agotha Kristof: «Dobbiamo descrivere ciò che vediamo, ciò che sentiamo, ciò che facciamo. Ad esempio, è proibito scrivere: `Nonna somiglia a una strega', ma è permesso scrivere: 'La gente chiama nonna la Strega'. Le parole che definiscono i sentimenti sono molto vaghe; è meglio evitare il loro impiego e attenersi alla descrizione degli oggetti, degli esseri umani e di se stessi, vale a dire alla descrizione fedele dei fatti». I fatti a cui Melania Mazzucco si mantiene fedele appartengono a un mondo onirico, intessuto però di residui diurni circostanziati, cercati in archivi, documenti e vecchie lettere, in brandelli di memoria, aneddoti e leggende familiari che poco per volta danno corpo alla storia del ramo paterno dei Mazzucco, quasi in un'interrogazione postuma, un dialogo silenzioso con il padre Roberto - a cui è dedicato il libro - che «amava raccontare e sapeva che solo ciò che viene raccontato è vero». Chi era Diamante - padre di Roberto e nonno dell'autrice? Chi era Vita? Cosa resta di quelle due figure leggendarie che, 11 anni lui, 9 anni lei, partiti da Minturno di Tufo, sbarcarono nella New York dei primi anni del secolo scorso? Benché i fatti siano ricostruiti con l'accanimento di un archivista il romanzo resta pervaso da una straniante atmosfera chagalliana, incantata e sospesa. Il «materiale» umano che Mazzucco riesce a far levitare, a rendere fiabesco, ironico e commovente, è la brutalità, la miseria, l'assenza di grazia di un gruppo di italiani arrivati a New York nei primi del `900, tra negozi dati alle fiamme e agenzie di pompe funebri che fungono da copertura a una mafia pericolosa e sgangherata. Fili narrativi fatti di dettagli minuti dipanano storie di emigrati che potrebbero valere anche oggi, anche qui, senza che mai vengano nominate le parole mafia, povertà, razzismo, sradicamento.

All'arrivo a Ellis Island, Diamante porta in spalla una federa di cuscino che contiene tutti i suoi averi, Vita ha nelle tasche una foglia secca di olivo, una chela di gambero, gli ossicini di una ranocchia, una scaglia d'intonaco della chiesa, oggetti magici che le devono garantire il ritorno. Tutti gli immigrati hanno qualcuno che è venuto a prenderli, un indirizzo scarabocchiato su un foglio, ma prima devono presentarsi davanti alla commissione immigrazione, dove un traduttore italiano, espletando uno sbrigativo rituale, spiega che bisogna dire la verità, solo la verità, «perché in America la menzogna è il peccato più grave, peggio del furto». A Diamante è già chiaro che la verità non serve a nessuno, così racconta la storia che si è preparato. Giura di non avere un contratto di lavoro, anche se lo zio Agnello - lo sconosciuto padre di Vita - ha già stabilito di mandarlo a lavorare a Cleveland, alle ferrovie; giura che lo zio provvederà al suo mantenimento per tutto il tempo che resterà a «Nevorco».

Nella casa sudicia e puzzolente di Agnello, trasformata in una pensione per italiani venuti a cercare fortuna in America, le brande sono separate da tende e le voci sconosciute oltre le pareti, grevi di alcol e di violenza, si esprimono in dialetti diversi e a volte incomprensibili. Diamante dorme con uno sconosciuto cugino, faccia contro piedi, piedi contro faccia. Il volto gli resterà ignoto, ma dei piedi imparerà a conoscere ogni callosità. Vita scopre che il padre dorme con una circassa, la «moglie americana», altro magnifico personaggio lunare. Ha raccontato ai bordanti che la moglie italiana è morta. In realtà Dionisia, appena arrivata in America, è dovuta tornare a Tufo, respinta dalle autorità a causa di una malattia agli occhi. Ormai non gli resta che sperare che quella brava moglie dagli occhi malati muoia al più presto, permettendogli di mettere fine alle chiacchiere che minano la sua reputazione a causa della convivente e del nuovo figlio in arrivo. E' per questo che Agnello ha fatto attraversare l'oceano a Vita, per aiutare la moglie americana incinta. Vita odia il bambino che separerà definitivamente suo padre e sua madre, sogna che muoia, e - altra magia - la moglie americana abortisce.

Sbalzando ogni personaggio da una materia in cui convivono bruttura e grazia, con un tenace amore per questi uomini incapaci di parola e di espressione dei sentimenti, Mazzucco ci conduce in cima al grattacielo in costruzione che ospiterà il New York Times, dove Agnello e un manipolo di parenti stretti officiano una stralunata cerimonia funebre per il feto abortito. Leggono una pagina dal Prologo di Giovanni, l'unica parte rimasta del Vangelo, cantano E lucean le stelle con il timore che sia un sacrilegio, perché non sanno i canti religiosi e in fin dei conti è Caruso il loro apostolo. Il fratello americano guarderà la città dall'alto e ci sputerà sopra. L'America di Vita è una sospensione, un viaggio iniziatico, un miraggio, e non a caso l'autrice mette a esergo del libro una citazione di Alain Resnais tratta da Mon oncle d'Amerique: «L'America non esiste. Io lo so perché ci sono stato». L'America è fatta di strade numerate, e non l'alfabeto ma l'abaco è la chiave di New York. Più i numeri delle strade scendono, meno contano, e chi abita nelle strade coi numeri bassi vale zero. L'America è un vuoto dove tutto può accadere. Ma di lì a poco Vita e Diamante si accorgeranno che gli italiani sono la minoranza etnica più miserabile della città. «Più miserabili degli ebrei, dei polacchi, dei rumeni e perfino dei negri».

Il romanzo tiene in bilico più piani narrativi e Mazzucco, dopo aver distribuito le carte, le scompagina secondo sincopi narrative spiazzanti: alla storia di Vita e di Diamante, che si dipana fino agli anni `50, fanno da contrappunto la storia del capitano Dy, figlio di Vita, che nel 1944 si unisce alla 5 Armata americana in marcia verso Roma, con l'intimo desiderio di ritrovare le sue radici, e la ricerca dell'autrice, che a tratti entra in prima persona a mostrarci il lavoro di cucina di scrittura e riflessione. Ci racconta di come, invitata nel 1997 a tenere un discorso alla Librery of Congress di Washington, si sia imbattuta in Prince Street, la casa dei bordanti, nel lusso di Soho, e di come si siano risvegliati a chiedere conoscenza i fantasmi della storia paterna e i bambini di Tufo morti per fame che le venivano rinfacciati durante l'infanzia anoressica.

Tuttavia è la parola il cuore pulsante di questo libro, la parola cercata, voluta, amata come cifra dell'umano, indagata nello scacco di chi, in un paese straniero, si ritrova nell'impotenza dei bambini prima di imparare il nome delle cose, che piangono senza poter dire di cosa hanno paura. Per Diamante la parola è una ricerca affannosa; per Vita è un talento, insieme a quella che si potrebbe maldestramente chiamare disobbedienza, ma che invece è obbedienza a una regola interiore, come la necessità del canto per un uccello. Costretta ad andare a scuola da un'ispettrice della Society for Charity, propone a Diamante - che lavora per un boss mafioso e che darebbe qualsiasi cosa pur di imparare a parlare - un patto che deve restare segreto: gli insegnerà ogni parola in cambio di un bacio. Job, un bacio sui capelli. Train, un bacio sul naso. Bed, un bacio sulla guancia. Earth, hearth, hurt, hope.

Nonostante il racconto di sopraffazioni, di umiliazioni, di patimenti che sono stati reali e che continuano a essere reali, ci si ritrova spesso, nella lettura, con un sorriso aleggiante sul volto, perché Vita fa sorridere come fa sorridere la vita quando è afferrata per un lembo, quando per un istante viene mostrata nella sua meravigliosa, miserevole necessità di essere, in bilico tra le bassezze della sopravvivenza e lo slancio del sogno. Mazzucco accosta la figura del nonno al Chaplin di Charlot emigrante. «Quella storia lo faceva ridere e lo commuoveva. Non so se rivedeva in quell'omino se stesso - e se quella storia, che in fondo per Chaplin era autobiografica, gli sembrava anche la sua. Comunque, varie volte, negli anni `30, portò suo figlio Roberto a vederla - e anche mio padre, come poi avrei fatto io, non gli chiese mai perché. Ma Roberto non aveva capito perché mai, mentre la platea sussultava, squassata dalle risa, suo padre restava immobile, pietrificato nell'oscurità, lo sguardo fisso sullo schermo».

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