ECONOMIA

Politiche contro l'America latina

BERETTA GIANNI,MANAGUA

I paesi dell'istmo centroamericano registrano livelli di povertà crescente mai sperimentati neppure sotto i peggiori governi oligarchico-militari o durante i sanguinosi conflitti interni degli anni `80. Non è un caso che Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua (con l'eccezione del Costa Rica) ricoprano in blocco le ultime posizioni in America latina nel rapporto sullo sviluppo umano delle Nazioni unite. E dire che oggi la pace si è consolidata nella regione, insieme ad una seppur fragile democratizzazione. Nestor Avendano, economista nicaraguese, professore all'Università centroamericana dei gesuiti di Managua e consulente delle Nazioni unite, ci spiega le ragioni strutturali di questo disastro che non ha solo a che vedere con le ricorrenti carestie, alluvioni e terremoti. «Cominciamo dai fattori negativi esterni comuni al resto dell'America latina: fino a che le economie trainanti del globo non torneranno a crescere, la domanda dei nostri già scarsi beni di esportazione resterà rachitica, impedendo anche a noi di crescere. Le incertezze della guerra in Irak hanno reso poi instabile da mesi il prezzo del petrolio, il cui aumento rende del tutto non competitivi i nostri prodotti. Inoltre, qui più che altrove, si stanno sentendo gli effetti della caduta del prezzo internazionale del caffè, con 600.000 famiglie che con l'abbandono delle piantagioni hanno perso la loro unica fonte di sostentamento».



E sul piano delle politiche economiche interne?

Predomina l'effetto devastante dei diktat fondomonetaristi, che impongono che lo stato non regoli più nulla, e si limiti a tagli drastici delle spese per diminuire il deficit pubblico. In più, a differenza dei paesi ricchi dove si assiste a una progressiva riduzione delle imposte, da noi il Fondo esige un aumento generalizzato dei tributi; che in una situazione di virtuale recessione economica deprime ulteriormente i consumi delle famiglie in una spirale perversa senza fine che riduce ulteriormente le attività economiche. Senza parlare dell'impennata delle tariffe dopo la privatizzazione dei servizi di luce e acqua (e telefono). E tutti questi condizionamenti per che cosa? Per ottenere dei prestiti che in gran parte servono a pagare gli interessi del nostro debito estero.

Gli investimenti sono fermi?

Quelli pubblici completamente. E quelli privati sono assai scarsi visto che la nostra classe imprenditoriale tende a vivere di rendita con quello che ha, assicurando buona parte delle proprie ricchezze nelle banche di Miami. Mentre gli investimenti stranieri caso mai lasciano il continente americano. In compenso sono in costante espansione le zone franche che io definisco «investimenti in terra di nessuno all'interno dei limiti geografici della povertà». I nostri governi regalano terreni e servizi ad aziende senza scrupoli di Taiwan, Corea del sud ma anche statunitensi, che senza pagare un soldo di tasse si installano con le loro «maquilas». Certo generano occupazione ma a salari miserabili, senza alcuna difesa sindacale e sotto rigido controllo dei lavoratori anche quando vanno a fare pipì. Da noi la povertà non è più il risultato di un modello economico ingiusto o sbagliato; ma si è convertita nella sua stessa base di funzionamento. Per questo le «maquilas» si installano dove ci sono alti indici di ignoranza e disoccupazione. Nel mio paese un governante è arrivato ad affermare che «il Nicaragua si convertirà in una immensa zona franca».

Ma allora come si fa a campare in Centro America?

Con le rimesse familiari degli emigrati negli Stati uniti, che in Salvador, Honduras e Nicaragua hanno persino superato il livello delle esportazioni totali annue. Una emigrazione di disperati che continua inarrestabile tuttora, nonostante le misure repressive al confine con gli «states».

A febbraio hanno preso il via i negoziati fra i paesi centroamericani e gli Stati uniti in vista del futuro Trattato di libero commercio.

Le premesse sono alquanto negative. Basti dire che la lingua ufficiale alle trattative non è lo spagnolo ma l'inglese. In realtà fino a che gli Usa non toglieranno i sussidi all'agricoltura, non ci sarà futuro per i nostri prodotti . Anzi, rischiamo di fare la fine dei contadini messicani, ridotti sul lastrico dopo l'entrata del Nafta. E dire che il Fondo monetario ci impone il sacrificio dei nostri sussidi sull'altare del libero commercio. Le nostre piccole e fragili imprese poi, difficilmente reggeranno la concorrenza. Finiremo con l'essere inondati di beni di consumo senza poterci dotare di t«ecnologie. Chi deve preoccuparsi di più sono comunque Costa Rica, El Salvador e Guatemala che hanno maggiori infrastrutture. Nicaragua e Honduras potranno forse ottenere qualche concessione per essere nella lista dei 41 «paesi poveri altamente indebitati» del mondo.

Come valuta la situazione specifica del suo paese?

Il Nicaragua è ulteriormente rovinato per la sua debolezza istituzionale e per dei governanti che permetteno alle banche di non pagare le imposte sui profitti e dimentica le sorti del 75% della popolazione in stato di povertà. Siamo tornati fra i paesi con i peggiori indici di distribuzione del reddito: il 20% più ricco si accaparra il 65% delle entrate del paese. Ed ho la sensazione che il governo di Bolanos sarà peggiore persino del precedente di Aleman, che era un grande ladro ma ripartiva qualcosa fra i "suoi" poveri.

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