CULTURA

La vertigine Yourcenar

FARNETTI MONICA,ITALIA

Mentre alla fine degli anni Sessanta (quelli dell'Archeologia del sapere) Foucault elaborava il concetto di archivio, «meccanismo di relazioni» che stando fuori di noi ci delimita, ci sovrasta e ci indica nella «dispersione che noi siamo», Marguerite Yourcenar al proprio «archivio» dava forma e dava vita, e con la sua arte giungeva a elaborare e ad esprimere ciò che per via di dottrina si andava acquisendo nel corso di lenti decenni. «A vent'anni - riferisce infatti la scrittrice a Matthieu Galey - avevo abbozzato un grandioso romanzo storico che avrebbe contenuto, molto trasformate dalla fantasia, tutte le generazioni della mia famiglia». Si trattava, aggiunge, «di dare un pensiero a quei milioni di esseri che vanno moltiplicandosi di generazione in generazione (due genitori, quattro nonni, otto bisavoli ecc.), all'immensa folla anonima di cui siam fatti» poiché «l'umanità intera, la vita intera passano in noi». Ne sarebbero derivati L'opera al nero e La mort conduit l'attelage (prima versione di Come l'acqua che scorre), nonché la trilogia familiare e autobiografica composta da Care memorie, Archivi del Nord e Quoi? L'Éternité. Con quel progetto giovanile tutto incentrato sulla sua idea di archivio Marguerite Yourcenar travolgeva così, in un sol tratto, un modello di autobiografia, un modello di romanzo e un modello di storia, preparando peraltro un assai accidentato terreno agli studiosi e alle studiose a venire. Che avrebbero dibattuto lungamente - la storia della critica lo dimostra - sul problema dei generi letterari da lei praticati, sui presupposti del suo concetto di verità storica e le regole della sua invenzione romanzesca, sull'entità e il luogo del confine fra scrittura dell'io e scrittura di altri (e altro: Adriano, Alexis, Zenone, Arianna ed Auridice, Mishima e Maria Maddalena, il padre Michel, i papaveri del Mont Noir, gli animali nella storia, la terra nel Paleolitico...), sul regime insomma sempre incerto e promiscuo fra autobiografia, storia e finzione di tutta la sua opera. I tempi sono però maturi, ora, perché si rinunci a questi distinguo e a queste partizioni, che la scrittura di Marguerite Yourcenar (alla stregua, noteremo, della maggior parte delle scritture femminili) travolge e rende obsolete e inservibili; perché ci si rassegni a una sua idea della storia, dell'individuo e della scrittura di cui ella rende sempre simultaneamente conto; perché nuove chiavi di lettura, infine, ci soccorrano aiutandoci a procedere e a superare le impasses.

Punto di partenza rimane, con estrema seppur incomoda evidenza, la necessità di assumere la scrittura, l'individuo e la storia come temi non scindibili l'uno dall'altro. Che il tempo dell'esperienza personale («memorie») si saldi a un tempo storico («archivi», per l'appunto) nonché ad uno metastorico e assoluto («eternità») prova infatti, per cominciare, che la competenza di Marguerite Yourcenar a narrare la storia non prescinde da, ed è tutt'una con, quella di narrare se stessa come storia e nella storia (si rammenti come nacque la trilogia autobiografica), mentre contemporaneamente ella fa esperienza di quella «soggettività accumulata» (la definizione è di Luisa Passerini), forma di soggettività condivisa con altri attraverso i tempi e gli spazi che sola consente di custodire il senso di sé, facendo sì che l'io si dilati al mondo e che l'autobiografia (è di nuovo la letteratura femminile a dare risalto a questo dato) sia anche e sempre biografia, luogo di alterità per eccellenza ossia vita - narrata, scritta - di sé e d'altri insieme. E mentre ancora è la scrittura, e non altro, la pratica che dispensa il bene dell'individuazione, consentendo la costituzione di un soggetto che non può prescindere dal suo rappresentarsi nemmeno qualora (è notoriamente il caso di Marguerite Yourcenar) la propria rappresentazione si dissimuli in quella altrui (di nuovo: Adriano, Zenone, Michel...) e in quella del mondo.

Ciò che qui è detto in uno stretto, vertiginoso e schematico giro di concetti si dipana con magnifica chiarezza in tutta l'opera di Marguerite Yourcenar: nei suoi romanzi cosiddetti storici come in quelli cosiddetti autobiografici, nei racconti e nei testi teatrali, nei saggi, nelle interviste e nei nevralgici paratesti (prefazioni, postfazioni, note, carnets di appunti) che tutta l'opera accompagnano amalgamandola e insieme amalgamandosi ad essa. Laddove, però, l'ampiezza e la chiarezza della sua complessiva esposizione non arrivano ad annullarne il presupposto di fondo, che rimane per sua natura generatore di vertigine: giacché i tre temi indicati, ed enucleati singolarmente solo previa forzatura - l'io, la storia, e la scrittura che di entrambi dà conto -, stanno l'uno con l'altro e l'uno per l'altro.

Resta che la nostra lettura può procedere spedita, affrancata da categorie poco vitali e sostenuta piuttosto dalla fiducia in una scrittura che sappiamo essere al tempo stesso memoria, o esperienza vissuta, e atto dell'immaginario; che non può riferire di un individuo, sia pure l'io di chi scrive, senza far capo, fra immaginazione e memoria, alla serie di generazioni e alla rete di relazioni che in quell'individuo hanno accumulato esperienza e sapere; che promuove infine ad ogni passo l'identità e la sua dissimulazione, l'alterità e la sua assimilazione, impedendo all'autrice di identificarsi, e a noi di riconoscerla, nei molti ritratti che - fra immaginazione e memoria - ella disegna di sé.

L'archivio però - è ancora Foucault a guidarci - «lungi dall'essere ciò che unifica» è «ciò che differenzia». Esso infatti «stabilisce che noi siamo differenza, che la nostra ragione è la differenza dei discorsi, la nostra storia la differenza dei tempi, il nostro io la differenza delle maschere». E' un ultimo passo, quello che ci esime da un'equivoca pacificazione con l'immagine di Marguerite Yourcenar risolta e ricomposta all'insegna dell'equivalenza (io = storia = scrittura), e che ci impone piuttosto di rilanciarla nel regime vitale della differenza. Senza dimenticare, cioè, che a dispetto di ogni descrizione unificante lei ha lavorato e ha vissuto assiduamente nello scarto, in un continuo differire dal suo grande «archivio» e in una perenne e progressiva individuazione (avvenuta, si potrebbe dire, suo malgrado) della sua personalità di donna e di scrittrice. Quella scrittrice che noi oggi onoriamo, senza per questo contravvenire al suo motto - «Il ne s'agit pas de moi» - poiché possiamo assicurarle che, in verità, si tratta di noi, di tutto quello che le dobbiamo come lettrici e lettori, della nostra commozione e della nostra gratitudine.



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