Fa un bell'effetto arrivare a Milano per seguire la XIII edizione del festival del cinema africano e vedere lungo la strada, affisse sulle fiancate dei tram, le locandine di un film algerino. Sulle affiches campeggia in primo piano la bellezza seria e mediterranea di Ibtissème Djouadi, la giovanissima protagonista di Rachida, opera prima dell'algerina Yamina Bachir Chouikh. È la prima volta che un film nel concorso lungometraggi del festival viene programmato in sala. Anche qui come già in Francia (dove è a gennaio), in Algeria e negli innumerevoli festival a cui ha partecipato Rachida è stato accolto con calore (si vedrà anche a Roma, nell'Africa Festival 3 e 4 aprile). Non amato dalla critica di tendenza (Libération l'ha liquidato come un film a tesi), Rachida ha saputo toccare il cuore del pubblico di mezzo mondo, con la storia (ambientata negli anni più caldi dell'integralismo, intorno al 1997) di questa tenace maestra ventenne di Algeri, che resiste all'agguato di un gruppo di giovani terroristi (volevano che portasse a scuola un pacco bomba), ne esce ferita gravemente nel corpo e nello spirito, e cerca riparo insieme alla madre divorziata in un paese nell'entroterra, solo per scoprire che anche la gente del posto è preda di questi giovani che assaltano botteghe, rapiscono ragazze, uccidono cittadini inermi. Quando tutto sembra perduto, il coraggio di Rachida e quello di alcuni bambini del villaggio guida i loro passi verso la scuola elementare, come estrema sfida della dignità del quotidiano contro la barbarie. Dedicato a Zakia Guessab (la giovane maestra di Algeri alla cui vicenda si ispira il personaggio di Rachida, uccisa in un agguato), al fratello di Yamina e alle altre innumerevoli vittime del terrorismo integralista, il film ha la forza di una favola nera, densa di simbolismi, raccontata tutta dal punto di vista di chi ha vissuto per anni sulla propria pelle la paura di tutti, l'indifferenza omertosa dei più, il coraggio disperato dei pochi, nella difesa ostinata del diritto a vivere in pace. Proprio per questa dichiarata scelta di campo, la decisione di focalizzare il racconto su chi il terrore lo subisce, piuttosto che su chi lo provoca o lo pianifica, Rachida fa storcere il naso a chi pretende di trovare nel film un inquadramento socio-storico, una puntuale analisi delle responsabilità politiche e culturali del terrorismo integralista, che ha insanguinato l'Algeria per tutti gli anni Novanta e tuttora (nonostante i proclami del regime e il silenzio dei media) semina vittime nel vastissimo entroterra del paese.
Da dove è nato il bisogno di scrivere questa storia?
Mi sono trovata a scrivere questo film semplicemente perché ero in collera e piena di dolore. All'inizio, quando in Algeria è cominciata quest'ondata di violenza, sono rimasta sorpresa e tutta la popolazione lo era. Poi la reazione successiva, umana, è stata di paura, di vigliaccheria anche, davanti alle armi. Dopo qualche anno sono riuscita a canalizzare la paura e a quel punto sono venute fuori il dolore e la collera e allora ho deciso di scrivere questa storia per raccontare il quotidiano degli algerini.
Il suo è un punto di vista interno, che non pretende di inquadrare il fenomeno del terrorismo.
È molto difficile tentare di raccontare la propria società ed è invece facile cadere nell'eccesso. Soprattutto noi del sud ci muoviamo su un filo. Quando facciamo dei film, ci si rimprovera sempre di mostrare il volto negativo della nostra cultura, di fare dei film per gli stranieri. Il fatto è che noi stessi rifiutiamo di guardarci allo specchio e di raccontarci. La situazione allora era dura, la violenza era dappertutto, non volevo cadere nel sensazionalismo, mi interessava una riflessione sul perché di tanta violenza, provocata dai nostri stessi figli. Nel film i terroristi sono dei ragazzi, perché io stesso ho visto nel mio quartiere dei ragazzi di 14 anni diventare terroristi. Ho cercato di essere più onesta possibile sul piano intellettuale e di esprimere tutto l'amore che ho per questa società. Non volevo raccontare dei drammi politici come un giornalista o un sociologo, quindi ho portato uno sguardo da cittadina indipendente sul mio paese. Ho scritto il film nel 1997, quando eravamo nel pieno del dramma, e dunque mi è stato difficile prendere una certa distanza dalle cose. Ho dovuto lavorare molto su me stessa per non avere la tentazione di giudicare. Volevo che tutti i personaggi apparissero nella loro dignità e nella loro bellezza, anche in una situazione di dolore.
Il suo è un approccio che punta a una certa astrazione antirealistica, da favola universale, forse per questo non è stato compreso da alcuni critici e invece è riuscito a toccare pubblici così diversi, compreso quello del suo paese?
Il film è uscito in Algeria ed ha smentito tutti questi detrattori. Credo che fosse dagli anni Sessanta, dai tempi della Battaglia di Algeri che la gente non si riversava così nelle sale, un pubblico fatto di intere famiglie, identificandosi a tal punto in un film. Ci sono dei proprietari di sale chiuse da vent'anni che mi propongono di riaprire la sala con Rachida. Per il resto, quando ho cominciato a scrivere questa storia non pensavo né al pubblico né alla critica né ai festival, ho pensato solo a come raccontare per immagini». In questi giorni di guerra, anche l'opinione pubblica algerina è scossa dagli avvenimenti in Iraq.
Alcuni paesi europei hanno posizioni differenti rispetto agli Usa, contribuendo a decostruire l'immagine per gli arabi di un Occidente monolitico. La Francia, ad esempio, con l'impatto della storica visita di Chirac a Algeri. Questo riavvicinamento alla Francia può eliminare alcuni alibi alla propaganda integralista?
Ci vorrebbe un cambiamento politico radicale, un altro progetto di società in cui si tiri la lezione di ciò che è successo e questa evoluzione deve svolgersi all'interno del paese. La visita di Chirac e il fatto che si possa parlare della guerra d'Algeria forse possono contribuire ad allentare la pressione, farà saltare certamente molti alibi, ma non sarà questo a fermare l'integralismo. Finché non ci sarà giustizia sociale, non ci sarà libertà per i giovani di esprimersi, la possibilità di avere delle speranze per il futuro, non si uscirà da questa situazione. Forse è una visione pessimista ma non posso impedirmi di averla, perché la vita di tutti i giorni rimane difficile. Continuano ad essere catturati dei terroristi di magari 19 anni, che quando è cominciato tutto erano dei bambini.