CULTURA

Variazioni linguistiche nel prisma dei segni

BELLO MINCIACCHI CECILIAITALIA

Negli ultimi anni, ostinatamente, andava cancellando il suo nome da tutti i suoi scritti, editi e inediti, che gli tornavano fra le mani, in un continuo rileggere/riscrivere le sue tante lingue, vive e morte. Cancellava i dati materiali, le già scarne e spesso volutamente depistanti notizie in calce ai suoi testi. Nome - autoriale e non - e attendibilità biografica non lo avevano interessato mai. Esortava a fare e poi a distruggere. Evento del transeunte. Il nome di Emilio Villa corre, è corso troppo spesso marginale o sotterraneo negli anni lunghi della sua vita e della sua energica, scontrosa e fiera attività di poeta, traduttore, artista e critico d'arte di sguardo acuto quanto lungimirante. Lo stesso Calvesi riconobbe a Villa la scoperta, tra i tanti, di Burri; di impatto straordinario fu Attributi dell'arte odierna. 1947-1967 (Feltrinelli, 1970). Un'attività poliedrica volutamente in ombra ma generosa di sé; fertile, a volte affastellata come la sua scrittura ondivaga e onnivora che pullulava su pagine e carte usate, d'occasione o di recupero, di cui fagocitava tutti gli spazi bianchi. Sorta di esemplare ossimoro tra la necessità imperiosa della scrittura (a volte in irridente maschera di vaticinio) e l'assoluta casualità del mezzo. Si è comportato un po' da clandestino, Villa, da studioso affilatissimo quanto eslege, qual era. E dalla clandestinità in cui una critica ufficiale priva di membrana vibrante l'aveva lasciato, malgrado una sperimentazione accanita che sbriciolava per davvero le barriere fra le arti e i saperi e mescidava idiomi in concrezioni inaudite, Villa non è mai veramente emerso. Neppure quando Feltrinelli ha avuto il coraggio (e il buon gusto) di riproporre la sua traduzione dell'Odissea (oggi di nuovo quasi irreperibile), quando Aldo Tagliaferri - antico conoscitore dell'opera di Villa nonché di finissimi dettagli della sua biografia - ha curato diversi volumi di poesie, tra tutti Opere poetiche (Coliseum `89), poi una retrospettiva al Pecci di Prato ('96), un numero monografico del «Verri» ('98). Le notizie su Villa correvano per tradizione orale, spesso mitizzate o distorte - da lui stesso per burla intorbidate o mai chiarite. Di quest'autore detto morto anzitempo - già nel 1986 - si è parlato spesso a sproposito o, più spesso, si è taciuto. Anche quando era per molti termine fisso, ma coperto, di una sperimentazione esemplare: penso a 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica (1955, in collaborazione con Burri), Heurarium (1961), Villadrome (1964), Le monde Frotté Foute (1970, con 6 tavole di Claudio Parmiggiani), le mûra di t;éb;é (1981). Una sperimentazione unica, quale la conoscenza dell'ugaritico, dell'assiro-babilonese, oltre che di greco, latino, francese, inglese, portoghese e dei linguaggi delle arti visive, gli permetteva. In latino scriveva Sibyllae e Verboracula (quest'ultima ora in Zodiaco, 2000, forse l'ultimo libro edito in vita), aggrediva il francese scrivendolo come «un negro di Dakkar» ma giocando finemente con gli omofoni, in un delirio grammatical-sintattico di inesauribile polisemia. L'italiano, dato lo stato della nostra patria cultura, gli era nemico, «un segno di schavitù». Era fortemente protestatario: dietro l'enormità del rapporto di Villa con la propria lingua nazionale, esisteva un'insofferenza innata alle coercizioni manifeste o sotterranee del mercato, oltre a una sempre rinnovata vocazione antiaccademica. Vocazione che ha tenuto Villa, di splendida cultura classica e di formazione seminariale, fuoriuscito dal Pontificio Istituto Biblico, laicissimo traduttore della Bibbia restituita al suo valore letterario prima che religioso - «bibbia», con desacralizzante minuscola - lontanissimo dagli sclerotizzanti stilemi della critica blasonata e dispotica, dai molti poco critici brusii effimeri e dell'effimero.

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