CULTURA

Bagliori intermittenti

FUORI CANONE
FARNETTI MONICA,ITALIA

Dunque l'alta scommessa dell'ultimo libro di Diotima si chiama discontinuità: una discontinuità non semplicemente rappresentata o messa a tema, come le prime pagine ben chiariscono, ma teoreticamente assunta come postura, capace di ripensare a fondo l'esperienza del tempo, il senso della storia e il rapporto con la tradizione. Discontinuità come possibile manifestazione di «un essere non tenuto a farsi vedere per esserci» e, al limite, di «un esserci che non ha bisogno di durare»; discontinuità come rilancio, come godimento e come investimento dell'assenza, o dell'intermittenza, della sottrazione e della mancanza che hanno caratterizzato fin qui il modo di farsi linguaggio, cultura e storia dell'esperienza femminile; discontinuità infine come «storicità originale, non confinata nella cronologia», e come «tradizione» che a dispetto dell'etimo si fa linea frastagliata tutta scosse e dislivelli, lungo la quale ciò che è «tràdito» scorre per l'appunto in modo discontinuo e accetta di esser «tradito» dal silenzio e dall'ombra. Presumo che altri e altre, oltre a me, possano aver sentito questa idea come portatrice di un gran senso di liberazione, di un clima di festa e di un'immediata euforia: umori tutti provenienti da un'improvvisa caduta di tensione, legata alla scoperta che possono darsi modalità di esonero, peraltro teorizzabili e assai degne, dall'impegno angosciante della propria testimoniata e durevole presenza nel tempo, nella storia e nella tradizione. Presumo però anche che come me altri si siano subito dopo sorvegliati (nonché puniti) nella (e della) propria giubilazione, intuendone la portata insidiosa nel momento in cui essa tendesse a offuscare - o addirittura a sostituire - la domanda sul come tradurre l'essere discontinui, intermittenti o assenti in un esserci comunque pieno, politicamente interpellabile e culturalmente imprescindibile.

La storia e la tradizione dei testi, letterari ma non solo, mettono in buona evidenza questo problema e questo dilemma, e per via della famigerata questione del canone ne forniscono un'istruttiva rappresentazione. La fragile topologia della periferia e del centro, del dentro e del fuori, dell'enciclopedia e dell'eccentrico che struttura e governa l'arte della memoria (letteraria, ripeto, ma non solo) è infatti una buona palestra per il pensiero che voglia ripensare e comprendere i fondamenti della storiografia, della critica e della lettura in genere, e la dice lunga sul cosa leggiamo (o non leggiamo) e sul come, celebrando chi e dimenticando chi, inevitabilmente assecondando un'economia dell'assenza/presenza orchestrata molto a monte e molto all'origine del «meccanismo» della tradizione e del racconto della storia.

La storia dei testi insegna come sia difficile l'essere e lo stare «fuori» (dal centro o in assoluto), a che prezzo i soggetti «non egemoni» scontino i disturbi spazio-temporali (dis-locazione e dis-continuità) con cui stanno nella storia e nella tradizione, cosa comporti il risultare eccentrici rispetto al sistema dominante di rappresentazione e cosa significhi, letteralmente, «pagare il canone». Detto questo però, e scontata la giusta punizione per aver troppo goduto di quanto mi è stato dato con Approfittare dell'assenza, torno per un attimo, e per concludere, al mio iniziale stato d'animo festoso e giubilatorio e saluto con gioia un libro importante, a cui sono (e resterò) profondamente grata, e della cui «assenza» non avremmo potuto, credo, in alcun modo approfittare.

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