L'Hotel Al Fanar, affacciato sul Tigri, è diventato in questi anni il quartier generale delle organizzazioni non governative che lavorano in Iraq. Modesto ma accogliente, ha un'atmosfera calda e familiare. Qui vivono e lavorano, fra gli altri, i francesi di Enfants du monde e di Premiere Urgence, gli italiani di Un ponte per, e diversi altri. Siamo venuti per capire meglio cosa fanno. Non è facile la vita delle ong in Iraq: i 12 anni di embargo hanno inferto danni molto gravi al tessuto sociale del paese e praticamente cancellato la sua società civile. Interlocutore unico e obbligato della loro attività è la Iraqi Red Crescent Society, la Mezzaluna Rossa irachena, e la convivenza non è facile. Differenze di mentalità e pesanti intoppi burocratici, assieme alla dignità degli iracheni, che mal sopportano di essere diventati - da paese ricco e sviluppato - una nazione costretta a vivere di assistenza, ostacolano attività e progetti.
La vicenda che ci raccontano a Enfants du Monde è emblematica. L'organizzazione, attiva dal 1995 nel settore dell'assistenza ai bambini orfani, portatori di handicap e ai bambini di strada, ha per partner il ministero del lavoro e degli affari sociali. La nomina di un nuovo ministro ne ha quasi paralizzato l'attività: i progetti sono bloccati senza che sia stata fornita una spiegazione.
Incontriamo anche i Mennoniti: gruppo americano-canadese di ispirazione religiosa, che ha radici nel messaggio biblico, e in Iraq lavora con l'Islamic Relief Agency. Ci parlano di un loro progetto nel settore dell'agricoltura - in particolare della coltivazione dei pomodori - che mira a migliorarne la produzione attraverso la fornitura di semi di alta qualità, venduti ai contadini a un prezzo minimo. Tutti comunque sottolineano che, al di là dell'importanza degli aiuti umanitari, il fattore centrale è la lotta per l'abolizione delle sanzioni.
Ma all'Al Fanar adesso non ci sono solo le ong. Da poco più di due mesi sono arrivati anche i membri dell'Iraq Peace Team: americani organizzati dal gruppo pacifista Voices in the Wilderness, che da anni si batte contro l'embargo con i metodi della non violenza. Non sono molti, ma sono determinatissimi. Kathy Kelly, coordinatrice e figura carismatica, ci racconta la sua esperienza. Questo è il suo 17mo viaggio in Iraq. Era qui durante la guerra del Golfo, con il Gulf Peace Team: una ottantina di pacifisti internazionali che si accamparono al confine fra Iraq e Arabia Saudita nel tentativo di fare interposizione non violenta contro la guerra.
Vennero evacuati prima dell'inizio dell'attacco di terra. A guerra finita Kathy tornò e rimase in Iraq fino all'agosto 1991. Nel 1995 ha fondato Voices in the Wilderness nel suo appartamento di Chicago: i suoi membri rischiano fino a 12 anni di carcere e oltre un milione di dollari di multa per le loro delegazioni di solidarietà in Iraq (ad oggi più di 50) in violazione della legge federale degli Usa. Nell'estate 2000 Kathy ha vissuto oltre due mesi a Bassora, con altri cinque membri del suo gruppo. Sono stati ospiti di famiglie povere per provare di persona (e far sapere negli Usa al ritorno) come si vive sotto l'embargo. Adesso è qui con una ventina di altri attivisti: fra loro anche alcuni membri dei Christian Peacemaker Teams, gruppo di ispirazione cristiana.
Hanno intenzione di restare anche nel caso in cui scoppiasse la guerra, per essere testimoni dei suoi effetti sulla popolazione civile. Lanciano un appello perché tanti altri si uniscano a loro. L'albergo sul Tigri potrebbe diventare troppo piccolo.