La vita sembra scorrere normalmente nella città che aspetta la guerra: traffico caotico, inquinamento, molti cantieri aperti. L'Iraq che vediamo ha il volto sorridente dei ragazzi e delle ragazze che escono da una riunione di giovani nell'aula della chiesa caldea di Nostra Signora del Sacro Cuore, nel quartiere di Sharia Falestin. Siamo lì per incontrare il vescovo ausiliario del patriarca Raphael Bidawid. Una foto tutti insieme con la bandiera multicolore della pace. Siamo 30 persone di cui 8 parlamentari ed esponenti di 15 associazioni, Ong, gruppi pacifisti: Un ponte per, Rete Lilliput, Social Forum, Pax Christi, Beati Costruttori di Pace, Gruppo Abele. Un pezzo di società civile italiana che, in maggioranza, si oppone alla guerra. Siamo di ritorno dall'ospedale pediatrico Al Mansur, un centro di medicina e chirurgia pediatrica con 300 posti letto, fondato nel 1986, che è anche clinica universitaria. Il direttore, Dr. Luay Kasha, ci parla dei problemi che affliggono la sanità irachena, uno dei settori più colpiti da 12 anni di sanzioni: mancanza di farmaci, specialmente antitumorali e salvavita, attrezzature ospedaliere e, soprattutto, la radioterapia: c'è solo un piccolo ospedale a Baghdad con circa 120 letti e 8 macchinari di cui 4 vecchi e guasti, l'unico per 22 milioni di abitanti. Tutti i malati di tumore devono andare a Baghdad e ci sono liste di attesa lunghissime, ma all'Iraq è proibito importare macchinari per la radioterapia. Unica nota positiva, l'introduzione di Internet che consente adesso a molti di tenersi informati. Visitiamo i reparti. L'ospedale, rispetto ad altri, non sembra in condizioni drammatiche, ma la sofferenza è ovunque, nei volti dei piccoli pazienti e delle madri. Ecco che ci raggiunge la notizia del nuovo bombardamento sulla no-fly zone a sud, vicino Bassora: ora che siamo qui questo ci sembra ancora più mostruoso e inaccettabile. Tante le immagini e le voci. Nell'incontro che abbiamo avuto, il presidente del parlamento, Saadoon Hammadi ci sottolinea che il problema non sono le armi di distruzione di massa dell'Iraq ma l'obiettivo degli Stati Uniti è di controllare il petrolio iracheno. «Non vogliamo la guerra - ci dice - ma non porgeremo l'altra guancia: combatteremo per difendere la nostra indipendenza come qualunque altro paese al mondo». La visita alla Facoltà di Scienze Politiche della Baghdad University, dove il preside, Mohammed El Adhami, ci dice che tutti gli studenti, incluse le donne, hanno frequentato durante le vacanze corsi di addestramento per l'autodifesa in caso di guerra. Nella riunione con le agenzie Onu, i rappresentanti Unicef e Undp e il nuovo coordinatore umanitario, il portoghese Ramiro Lopes da Silva, ci parlano - dati alla mano - delle condizioni drammatiche della popolazione civile provocate dalle sanzioni con una franchezza che non ci saremmo aspettati. Su un punto sono tutti d'accordo: una nuova guerra farebbe precipitare il paese in una catastrofe umanitaria molto più rapidamente di quanto avvenne nel 1991: oggi la situazione è di estrema fragilità. Al quartier generale Onu incontriamo anche gli ispettori al lavoro da una settimana nel monitoraggio dei siti iracheni. Nella sala dell'ex Canal Hotel c'è tensione mentre parlano il direttore del Bomvic (Baghdad Observation, Monitoring and Verification Centre), Miroslav Gregoric, sloveno,e il suo portavoce, il giapponese Hiro Ueki. Molti dettagli sulla logistica, ma per il resto bocche cucite: le ispezioni «procedono secondo programma», non ci sono sinora stati impedimenti. Ma a domande più «politiche», no comment: non siamo noi le persone giuste per rispondere taglia corto Gregoric, chiedetelo a Hans Blix. Anche sulle no-fly zones non si sbilancia: i nostri ispettori devono essere «sicuri», ma ci penseremo quando voleremo con gli elicotteri. Su eventuali infiltrazioni è però molto chiaro: stavolta la raccolta di informazioni di intelligence che chiederemo agli stati membri «sarà a senso unico», non passeremo alcuna informazione. Si ribadisce che quella offerta all'Iraq è l'«ultima occasione». Nella scuola elementare femminile «Bab el Seif», quartiere di al Salehieh, zona povera, in grave degrado, le bambine ci accolgono cantando. Chissà se è l'«ultima occasione» anche per loro. «La guerra uccide la gente che abbiamo conosciuto, Mohammed e Safana. In loro nome andremo il 10 dicembre nelle piazze di Italia», dice Fabio Alberti di "Un ponte per". E annuncia la nascita di una grande coalizione contro la guerra, un'iniziativa unitaria di parlamentari ed esponenti della società civile che «esce dal Parlamento e diventa rete nella società italiana», spiega Tana De Zulueta, senatrice Ds che sul progetto ha lavorato con tenacia. Con un primo successo: la revoca del divieto della Farnesina alla partenza per Baghdad di un aereo umanitario carico di medicinali, promosso dal Nobel per la pace Betty Williams, che era stato bloccato «per motivi di opportunità».