VISIONI

Gli incroci esotici di Sakamoto

CORZANI VALERIO,ROMA

C'è sempre un piccolo gap di comprensione quando, da europei, dobbiamo confrontarci con l'esotismo visto da Oriente. Abbiamo abbastanza chiaro il peso poetico, la motivazione, il substrato dell'esotismo di marca occidentale, ma restiamo sempre un po' basiti, spaesati, quando l'operazione parte dagli stessi ambiti geografici che noi definiamo esotici, per andare a trovare l'esotico altrove. In genere in questi casi ce la caviamo con il termine «bizzarria», giustificando il nostro spaesamento (un termine che racconta un'emozione molto esotica) con una miopia. Troppo comodo risolvere il gap liquidandolo attraverso una definizione sbrigativa e avvilente. Troppo comodo, nello specifico, affrontare un progetto come quello in cui Ryuichi Sakamoto ha filtrato la musica di Antonio Carlos Jobim con esemplificazioni di questo tipo. Il repertorio inserito nell'album Casa e cucinato dal vivo qualche giorno fa all'Auditorium di Roma insieme a Paula e Jacques Morelenbaum (entrambi ex membri della Banda Nova di Jobim), Luiz Brasil, Marcello Costa, suona tutt'altro che bizzarro, tutt'altro che kitsch.

La musica del grande compositore carioca, padre fondatore della bossanova, riceve da Sakamoto un trattamento che si colora di un esotismo nobile, sofisticato, colto. La spia di uno spaesamento volontario nel quale il pianista giapponese si muove in surplace. Dal vivo, dirige la sua «orchestra» di quattro elementi con l'autorevolezza e il trasporto di un maestro della bacchetta. Alla bacchetta peraltro, rinuncia, non solo per l'esiguità dell'ensemble ma anche perché è impegnato a tempo pieno sul pianoforte e deve aggiungere timbri, inflessioni, sfumature a spartiti che reclamano comunque più rispetto che ridondanza, più sottrazioni che addizioni, più solitudine che traffico.

Prendete la voce di Paula Morelenbaum ad esempio. Ha una tonalità leggermente neutra, asettica, che in un altro contesto potrebbe anche essere un difetto e in questo invece diventa un pregio nel momento in cui si trasforma in un micidiale vettore melodico. Prendete il percussionista Marcello Costa e il chitarrista Luz Brasil, entrambi capaci di virtuosismi strumentali a cui puntualmente rinunciano per mettersi al servizio di questa asciuttezza lirica e sopraffina. Prendete infine il grande Jacques Morelenbaum, violoncellista e arrangiatore superbo, che qui si disimpegna tra strumento elettrico e acustico con un giostrìo parsimonioso ed insieme, effervescente. Spesso pizzicato, a far le veci del basso che non c'è, il violoncello di Morelenbaum dialoga innanzitutto con il piano di Sakamoto e con le sue posate dinamiche. Un'empatia celebrata apertamente nei due brani eseguiti in duo, cello e piano, forse l'esempio più chiaro di quanto l'esotismo rabdomantico di Sakamoto sia proteso ad inglobare nel proprio orizzonte anche alcune pagine e alcuni personaggi della musica eurocolta. Sakamoto, spiegando l'approccio avuto nei confronti di alcuni brani di questo repertorio parla di elementi che rinviano alle cantate di Johan Sebastian Bach (Cancao em modo menor), al lirismo di Claude Debussy (As praias desertas), alle chansons di Erik Satie (Imagina), ai pezzi infantili della Ma mére l'oye di Maurice Ravel (Estrada Branca), al rintocco pianistico di Frederick Chopin (Sabià).

Tutte influenze e suggestioni che si confermano anche all'interno della sala mediana dell'Auditorium di Roma. Uno splendido concerto pieno di grandi hit (Desafinado, Agua de Beber) e di sfiziose curiosità (la Chanson pour Micelle ad esempio, un brano scritto da Jobim per una soap opera televisiva e finora disponibile solo in un vinile a tiratura limitata), pieno di citazioni e di traduzioni, di tributi e di rimandi. Cosicché alla fine non sappiamo se la «casa» nella quale siamo entrati debba essere dislocata in un quartiere di Tokyo, di Rio De Janeiro, di Vienna o di Parigi. E guarda un po', non troviamo in tutto questo, nulla di bizzarro.

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