SOCIETÀ

La fame non è una catastrofe naturale...

La crisi alimentare in Angola minaccia oltre 500mila persone
DENTICO NICOLETTA ,ANGOLA/BAILUNDO

La fame non è una catastrofe naturale. Non riesco ad affrancarmi da questa persino banale considerazione mentre la macchina, che già da un pezzo ha lasciato Huambo e la sua colorita miseria, ondeggia sulle buche lungo la strada che attraversa la savana e ci porta a nord, verso la città di Bailundo. In questa fame abrasiva dell'Angola ci sono responsabilità assurde che intrappolano, oggi, oltre 500.000 persone. I numeri parlano di masse anonime e senza volto, e fanno impressione. A vederli in faccia, i volti della fame, lo sconforto monta ogni giorno sotto la forma di un'angustia non localizzabile, una rabbia difficile da esprimere. No, la fame non è mai una catastrofe naturale, e non c'è niente di ineluttabile in questo paese, uno dei più ricchi del pianeta. Bisogna pensarci.

Bailundo, roccaforte e bastione storico dell'Unita, è una città fantasma priva di maestà. Le case sventrate e crivellate da una guerra che è ancora negli occhi di tutti fanno da opaco ed insensato sfondo alla nostra visita. La popolazione vive in meandri fra le vestigia, spesso in case di argilla che si stenta a credere che possano superare la prossima stagione delle piogge. Renato, il logista italiano arrivato da pochi giorni, farebbe qualunque cosa per trovare un pezzo di vetro grande quanto basta per coprire un pertugio della casa che abbiamo affittato da pochissime settimane, davanti alla piazza centrale: con milanese solerzia, sta cercando di rimetterla in piedi per accogliere gli espatriati che via via arrivano, ogni giorno più numerosi.

Medici Senza Frontiere è l'unica organizzazione che abbia deciso di fermarsi qui con personale internazionale. Una folta colonia italiana, come quasi ovunque, in Angola. C'è molto da fare, gli scambi di servizio fra gli espatriati che si avvincendano frettolosi al pranzo lasciano indovinare la volontà di garantire la presenza al centro nutrizionale senza soluzione di continuità. L'emergenza semplifica la mente, forse la pulisce, forse la abbrutisce.

Servono medici, infermieri, medicinali, cibo. Una logistica non finta. Il centro accoglie oltre 700 bambini duentes, malnutriti gravi, sui quali intervenire con ogni accortezza terapeutica. Ogni bambino si porta dietro perlomeno un genitore ed un fratello che lo accompagnano. Altre 1500 bocche da sfamare. E' giusta e sana la soddisfazione con cui Giuseppe, del team di emergenza arrivato per primo a Bailundo alla fine di maggio, snocciola il tasso di mortalità di questo centro: 2%. Un risultato eccezionale, se si considera il livello di formazione del personale angolano, selezionato in fretta e furia in questa città così irreale. E poiché sono davvero tanti i bambini che formicolano sul piazzale del centro nutrizionale, bisogna pensare a qualcosa che assomigli ad un parco giochi, dice Giuseppe, con il suo instancabile sigaro in mano.

Un centro nutrizionale è per molti versi un luogo irresistibile, una vera calamita operativa ed emozionale dalla quale risulta difficile staccarsi. Un luogo gratificante, dà risultati visibili ed immediati. Dello spirito fanno parte molte cose. Il fatto di metterlo in piedi lavorando come muli con la gente del luogo, vederlo in poco tempo stracolmo di bambini e di madri che si affaccendano, la campana della cucina che suona alle 12 e alle 18, i riti terapeutici che scandiscono il tempo e le agonie, le madri sul piazzale che lavano figli recalcitranti al sapone, la processione per la lavanderia, i capannelli che si creano qua e là tra conoscenti o più probabilmente compagni di sventura. E poi i pazienti da salvare. Non serve essere medico per sentirsi utile, ma se sei medico diventi indispensabile.

Alberta questa volta si è fatta la corteccia più dura per affrontare senza eccessiva emotività la pena acuminata della morte di un bambino. Si muove con fare deciso nel reparto intensivo del centro, con cenni non sbrigativi bracca ogni piccolo paziente in questa Angola senza cibo che le ha imposto implacabile l'iniziazione con la fame. Non si può mai dare nulla per scontato, la febbre ed il vomito, la diarrea ed il freddo della notte sono nemici sempre in agguato, se ne rende ben conto Andrea, appena arrivato ed alla prima missione, che la marca stretto. Adesso è teso come un cavo elettrico alle prese con Marcolino, otto mesi, minuscolo di nome e di fatto. E' arrivato qui come accompagnatore del fratello più grande, malnutrito grave e per giunta ricoverato in ospedale, in fin di vita, con il morbillo. Da un giorno all'altro, la malaria ha cominciato a divorarselo. Respira con estrema fatica, rinchiuso dentro la coperta termica.

Rinchiusa in un'acre sofferenza, la madre non lo molla un secondo. Ha puntato tutto su questo figlio sano. Da giorni ha deciso di abbandonare al suo destino ospedaliero il maggiore. Da giorni non va più a trovarlo, di lui si occupa un'altra madre con premura rassegnata ad un comune destino. Se sia istinto primordiale, un triage solo in parte incomprensibile di sopravvissuti, oppure una forma estrema di difesa, per non impazzire, non so. Non ho appigli. In Angola ogni criterio conosciuto di valutazione si sfarina in idiozia.

A Luena l'ho capito la prima volta, quando Maria nell'obitorio del centro di Msf vegliava sul secondo dei quattro figli, morto a due settimane dalla morte del primo, ansiosa di un funerale che la riportasse tra la comunità del suo campo di sfollati a Muacanica. Me l'ha insegnato Maria Enriqueta, qui al centro di Bailundo, raccontandomi le scene di vita violenta negli ultimi tre anni di foresta, e di come la propria figlioletta fosse morta poco prima che lei partorisse Augusto, nato la settimana scorsa ed ora tutto avvoltolato negli umori e tra gli stracci a condividere lo stesso letto con la madre ed il fratello Crispino, quattro anni, anche lui malato di fame.

All'indomani, sotto gli alberi del piazzale d'ingresso del campo, lo sguardo che intercetta d'un baleno la madre di Marcolino, coagulata in un dolore incomunicabile, racconta senza fronzoli l'epilogo. Sola, cullata dall'ossessivo dondolio di bimba divenuta madre troppo in fretta. Sola, in un singhiozzo sommesso senza speranza. Accanto a lei un'altra madre in lacrime, alle prese con i gesti automatici di altri figli da accudire. Un cerchio del dolore al quale nessun'altra donna si avvicina, quasi per scaramanzia. Non c'è prossimità che tenti di colmare l'intransigente solitudine di un dolore che non conosce eguali: la perdita di un figlio. Atroce e fredda come il fango.

Nella piccola stanza dell'obitorio Marcolino, per terra nella sua coperta termica, non sembra rimpiangere la estenuante battaglia contro la malaria. Forse è stato fortunato. Suo fratello sta ancora lottando. In otto mesi di vita ha subìto, ma non ha avuto il tempo di capire, il disastro esistenziale di nascere angolano.



*direttore esecutivo

di Medici Senza Frontiere





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