L'università di Baghdad, 21 facoltà, 3.000 docenti, 50.000 studenti, 55 anni di vita, è collocata nell'ansa del Tigri, immersa nel verde, per quello che questo può significare qui. Larghi spazi separano i bassi edifici sedi delle facoltà e su tutto svetta la (brutta) torre dell'amministrazione. Doveva essere molto bella a suo tempo, quando era una delle più rinomate del Medio Oriente . Ora i segni dell'embargo si vedono ovunque: edifici fatiscenti, attrezzature fuori uso, biblioteche in arretrato di anni.
Anche qui, come in tutta Baghdad qualcosa sta cambiando: c'e un nuovo ascensore, può sembrare uno stupidaggine (e non lo è in un edificio a 18 piani), ma in una città in cui, per anni e anni, tutto ciò che si rompeva rimaneva inesorabilmente fermo, per sempre, per l'impossibilità di importare pezzi di ricambio, è una vera novità.
Siamo qui per incontrare il responsabile delle relazioni internazionali prof. Jamal Al Obeici per discutere l'andamento dei progetti di cooperazione interuniversitaria italo-iracheni promossi dal progetto Assurbanipal di «Un ponte per». Portiamo l'ultimo accordo firmato: quello dell'università di Viterbo che prevede collaborazione in campo agrario, riceviamo la comunicazione dei nomi dei primi due studenti che riceveranno le borse di studio messe a disposizione dall'Università di Padova, che con Pavia e Genova ha già perfezionato il protocollo d'intesa.
Danno molta importanza, qui a questi accordi: l'isolamento scientifico e accademico per anni è stato quasi completo. I 34 accordi di collaborazione con università estere in vigore nel 1990 sono tutti stati interrotti e dei 16 accordi siglati in seguito, i primi nel `96 con due istituti russi, ben cinque sono con università italiane. I delegati delle università irachene a congressi scientifici all'estero erano 1421 nel 1990 e sono solo qualche decina attualmente, mentre ai 2300 studenti universitari che studiavano gratuitamente in Europa all'inizio della guerra del Golfo sono stati tagliati i fondi. Oggi solo pochissimi possono ancora permettersi di studiare o perfezionarsi fuori dal paese. Un isolamento completo, e mentre nemmeno più le riviste scientifiche potevano entrare, sono stati molti i docenti che hanno lasciato il paese e che ora insegnano nelle università di tutto il mondo arabo. Una vera e propria fuga di cervelli che ha depauperato il paese forse irrimediabilmente.
Il professor Al Obeici vorrebbe essere ottimista, ma non sa se esserlo: «Le cose cominciano a migliorare, se ci lasciassero fare col tempo ci rimetteremo in piedi. Certo che se ci attaccano e ci fanno tornare al 1990 quando tutto era distrutto sarà una catastrofe. Nel '90 - spiega - c'erano scorte di pezzi di ricambio che hanno permesso di rimettere in funzione, bene o male, molte attrezzature, ma ora non c'è nulla».
Jamal può essere ottimista anche perché il suo stipendio è recentemente passato da 20 a 200 dollari, quasi uno stipendio da professionista privato e ora può usare per lavoro la nuova macchina di rappresentanza dell'Università e non la sua privata. Gli stipendi dei professori erano arrivati, come quasi tutti quelli statali, a livelli di pura sopravvivenza, e la attività privata languiva, spingendo molti ad emigrare o anche ad arrangiarsi come taxisti.
All'università sono ora anche arrivati i computer, 3.000, assemblati in un paese arabo, e Internet. Segno che gli «accordi di libero scambio» siglati dall'Iraq con i paesi arabi cominciano a dare dei risultati. Opportunità che la grande parte della popolazione attende ancora di vedere, come sembrano dire i lustrascarpe bambini che ci aspettano, come sempre, al ritorno in albergo.
* Un Ponte per...