Se ci sarà un attacco i marines non saranno gli unici statunitensi ad essere a Baghdad. «È triste dirlo, ma la morte di migliaia di bambini per le bombe o l'embargo non è una notizia, mentre la presenza di uno sparuto gruppo di americani sotto i bombardamenti lo è. Cercheremo di trarre vantaggio da questa assurda realtà per essere di aiuto nel momento del bisogno, verso i feriti, i senza casa, ma vogliamo soprattutto documentare quello che succederà. La guerra del Golfo è stata vista in televisione come se fosse un videogioco, non è stato mostrato nessun volto. Vorremmo invece che attraverso di noi gli americani possano per una volta vedere in faccia le loro vittime». Così Ramzy Kysia spiega la decisione di volontari di «Voices in the Wilderness» di restare a Baghdad sotto le bombe in caso di attacco. Lui è già qui da tempo per risolvere le questioni logistiche, altri arriveranno a fine settimana. Poi, da ottobre, gruppi di volontari si alterneranno in turni di due mesi ciascuno e resteranno fino alla fine. Guerra o non Guerra. Saranno impegnati preso ospedali, le Ong, le agenzie internazionali in attesa degli eventi.
Quattro giorni di volontariato, tre giorni di lavoro sulla stampa statunitense: questa la loro settimana. I pacifisti nonviolenti di Voices, due volte nominati per il Nobel per la pace, prendono maledettamente sul serio il loro impegno. Ognuno di loro avrà alle spalle un comitato di sostegno che veicolerà negli Usa le informazioni che i volontari da Baghdad invieranno.
Sono nati e cresciuti così. Kate Kelly, fondatrice e leader carismatica del gruppo, era alla frontiera tra l'Iraq e l'Arabia Saudita, con il «Gulf Peace Team», il 17 gennaio 1991, a fare interposizione. Ma allora dovettero assistere da lontano, agli eventi. «Questa volta saremo già dentro», commenta Ramzy, arabo americano originario del Libano, che definisce la propria organizzazione un gruppo di gente comune, che ha le sue basi nella sinistra cristiana, ma che raccoglie gente di tutti i credi e partiti politici. «C'è anche qualche repubblicano» commenta. Dal `95 hanno organizzato 45 delegazioni di attivisti. Piccoli gruppi, ma fortemente motivati ad essere gli occhi attraverso cui l'America vede i suoi misfatti. Quindi un grande lavoro sulla stampa al ritorno. Con qualche risultato, commenta soddisfatto, elencando un lungo elenco di testate che hanno riportato la loro testimonianza. Qualche centinaio di volontari non sono pochi nello scarno panorama del movimento contro la guerra statunitense. Oltre a Voices, l'International Action Centre (Iac), pochi sindacati, solo il Green Party impegnato, e una qualche capacità di mobilitazione studentesca e poi piccoli gruppi locali che comunque hanno portato a maggio scorso in piazza a Washington centomila persone contro le guerre. «Un movimento impotente» sostiene invece, scettica, Barbara Nimri Aziz, giornalista-attivista di Pacifica Radio, network della sinistra americana. «I pacifisti stanno facendo campagna agitando lo spauracchio delle vittime americane, ma queste vittime non ci sono state nelle ultime guerre, non è come in Vietnam. E poi così non si apre una riflessione sul ruolo degli Usa nel mondo. Bisogna aprire questo dibattito». Un dibattito che l'Iac ha invece cercato di aprire da tempo con una critica serrata ed «antimperialista» della politica statunitense dell'ultimo decennio; Ramsey Clark, che lo ha fondato nel 1992, è comunque il primo personaggio di spicco che negli Usa ha alzato la voce contro l'aggressività del proprio paese. Comunque ora sono tutti qui a Baghdad, con attivisti spagnoli, inglesi, tedeschi, russi, arabi, persino giapponesi, avanguardie di presenze più ampie. L'esempio di Voices, la prima ad annunciare la volontà di andare a Baghdad contro la guerra, sarà seguito da molti.
* Un Ponte per...