MONDO

Baghdad aspetta il nemico

REPORTAGE
ALBERTI FABIOBAGHDAD

«Siamo pronti a lavorare con l'Onu per implementare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza». Un sospiro di sollevo si è levato ieri mattina dalla sala ove erano riuniti a Baghdad parlamentari, attivisti pacifisti di tutto il mondo - dall'Italia erano presenti gli ex deputati Folloni e Simeoni, padre Benjamin e «Un ponte per...» - per discutere delle minacce di guerra, quando è stato dato l'annuncio. E' stato lo stesso Tareq Aziz a informare la platea, in gran parte ancora ignara, che ieri sera l'Iraq aveva comunicato al Segretario generale dell'Onu, Kofi Annan, «di essere pronto ad accettare il ritorno degli ispettori senza condizioni, secondo la richiesta che abbiamo ricevuto da paesi e blocchi amici, dalla Lega Araba, dai paesi non allineati».

Il vice premier iracheno, che ha definito coraggiosa la decisione, aggiungendo di credere però che la questione degli ispettori sia solo un pretesto per attaccare il paese, come sarebbe dimostrato dalle prime reazioni dei Washington e Londra; il vero obiettivo, «come risulta anche da dichiarazioni di esponenti Usa» è il petrolio e il «riassetto dell'intero Medio Oriente a partire dalla frammentazione dell'Iraq». Aziz ha quindi sfidato gli Usa e la Gran Bretagna a mostrare le prove della esistenza di armi di distruzione di massa in Iraq.

Alla «Baghdad Conference» partecipano quest'anno centinaia di attivisti impegnati nelle campagne contro le sanzioni economiche di differenti tendenze e posizione, dai nonviolenti americani, a deputati di diverse aree politiche.

George Galloway, deputato laburista inglese, ricordando che nel `98, prima che gli ispettori lasciassero unilateralmente l'Iraq aveva protestato perché la commissione Onu era stata utilizzata dagli Stati per svolgere una attività di intelligenze illegale - accuse poi dimostrate fondate dal Washington Post e da molti degli stessi funzionari Onu - ha proposto la formazione di una commissione internazionale che controllasse il lavoro degli ispettori.

Intanto Baghdad appariva in questi giorni sfiduciata. «Nessuno compra, nessuno investe, lavoro non se ne trova, proprio ora che le cose ricominciavano a marciare», ci dice un negoziante di computer rappresentando così l'incertezza sul futuro che si è aggiunta alla quotidianità dell'embargo.

La paura è di ritornare indietro all'inizio degli anni `90, quando, dopo la guerra del Golfo c'era tutto da ricostruire, e di veder sfumare le esili promesse che l'attuale ripresa economica lasciava intravedere.

Baghdad infatti non è più la stessa di un paio di anni fa: cantieri di ristrutturazione sono aperti dappertutto, auto nuove cominciano a circolare accanto, nei negozi sono apparsi apparecchi elettronici prima impensabili, segno che per una parte della popolazione il reddito è ricominciato a salire.

Lo è certamente nel settore privato dove i salari «superano» spesso i 100 dollari. I privati hanno infatti cominciato ad approfittare delle opportunità, lecite o illecite, che derivano dalla firma di accordi di libero scambio con quasi tutti i paesi arabi. Triangolando con la Siria, lo Yemen, il Dubai, lo stesso Egitto è ricominciata, ad esempio, la esportazione di datteri, che sono arrivati addirittura lo scorso mese fino alla Fiera del levante di Bari. Pur non avendo conferme dirette lo stesso sta avvenendo in altri settori. Sempre attraverso triangolazioni arrivano le nuove merci che i negozi delle zone ricche cominciano a proporre. I computer sono ad esempio assemblati in Siria, o altrove.

Insomma, dopo 12 anni, qualcosa si muove. Il settore dell'edilizia, in stagnazione dopo la fine delle prima ricostruzione delle distruzioni belliche, è in piena ripresa. I primi investimenti dei proventi della ripresa commerciale infatti sono destinati a recuperare la grave carenza di manutenzione che tutti gli edifici hanno dovuto sopportare nell'ultimo decennio.

Non si tratta ancora di un fenomeno generale. I benefici sono ristretti a una piccola cerchia di nuovi ricchi, mentre la maggioranza della popolazione è ancora tenuta in vita dal paniere di alimenti distribuito da governo, ma gli economisti stimano che in qualche anno, se non intervengono gravi fatti si dovrebbe assistere ad una ripresa economica e un miglioramento. Segno che la carta dell'aggiramento dell'embargo attraverso la costruzione di una «zona araba di libero scambio», sia pur sulla base di accordi bilaterali, giocata dal governo iracheno un paio di anni, fa sta dando risultati.

Insomma anche se gli indicatori generali di benessere sono ancora drammatici - il tasso di mortalità infantile continua a non scendere, mentre la quota di bambini in stato di malnutrizione cronica è scesa appena dal 30% al 28% - c'è speranza in Mesopotamia. E non si capisce per quale motivo, proprio ora, i dirigenti dovrebbero rovinare tutto questo decidendo di attaccare qualcuno. Qui, almeno per quel che siamo riusciti a vedere, la propaganda statunitense fa acqua: sull'esistenza o meno di «armi di distruzione di massa» nessuno sa veramente nulla e veramente nulla si saprà mai. Ma sul motivo per cui l'Iraq dovrebbe essere un pericolo impellente non è mai stata spesa una parola convincente.

* Un Ponte per...



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