CULTURA

Il paesaggio mentale delle passioni

LA PORTA FILIPPO,ITALIA

Per attraversare nel modo più proficuo la Pianura proibita di Cesare Garboli (Adelphi euro 22, pp. 209) occorre un'operazione preliminare. Il lettore dovrà farsi legare come Ulisse per non restare interamente sedotto dal «canto» avvolgente della prosa. Benché lo stile non sia mero abbellimento ma precisamente il mezzo conoscitivo di un autore, il suo modo personalissimo di essere al mondo, nel caso di Garboli bisogna un po' resistere alla malia del suo stile, a quel sontuoso spettacolo della lingua e della sintassi. E invece tentare di seguirne il limpido ragionare che attraverso un uso poco disciplinato delle opere letterarie, teatrali, figurative, etc. si configura come una meditazione alta sull'esistenza, ispirata ad una serena drammaticità. La pagina di Garboli, fittissima, a volte vertiginosa nel suo teatro retorico, non è mai «difficile», per la ragione che sembra riprendere e riformulare continuamente quelle domande elementari intorno all''esistenza che appartengono all'età adolescente. Non pochi sono i riferimenti alla condizione di «ragazzo» (da Fabrizio del Dongo al quadro di Guido Reni) a quella esperienza primaria del mondo fatta di angoscia inespressa, noia, solitudine, sogni irrealizzati (che tali devono restare, per non tradursi in «quella speciale tristezza che è dei vincenti»), velleità di avventura, impotenza, scoppio di risa, desiderio di autocancellazione, indifferenza, sfida. Non si tratta tanto di un rovello «metafisico», poiché, come qui si legge, la metafisica esclude la tragedia, e almeno nel Novecento non v'è formazione adolescenziale che non sia passata attraverso la non-conciliazione dell'esistenzialismo, la rilettura di Kierkegaard, quanto di una interrogazione caparbia, un po' ribelle, sempre «in progress» e in stretta comunicazione con la nostra immediata quotidianità (di percezioni, gesti, pensieri...). E l'adolescente, non dimentichiamolo, è anche colui che scopre la realtà in quanto oggetto incommensurabilmente distante da sé, non corrispondente ai nostri desideri; ne avverte tutta la incurabile alterità e in un certo senso immodificabilità. E anzi scopre che proprio questa alterità è la radice della sua bellezza e del suo fascinoso enigma. Ma ora, dei molti temi e sottotemi sparsi in queste pagine, e tutti ruotanti, come si è detto, intorno a quelle domande disarmanti e così essenziali sul senso o non-senso del mondo, vorrei con qualche arbitrio sceglierne due.

Si dice a un certo punto, discorrendo di biografie, che ogni vita è un testo, un sistema formale, coerente, governato da leggi proprie, e sempre già «scritto» in ogni dettaglio: ognuno di noi possiede la sua particolare cifra, anche se potrebbe non diventarne mai consapevole. La vita-testo di un autore si manifesta, benché in modi ellittici, sfuggenti, attraverso il testo che quell'autore compone. Ora, perché dovrebbe essere così appassionante per il critico o per il lettore decifrare quella vita-testo? Probabilmente perché per poterla decifrare bisogna prima averne ritrovato il «testo» dentro di sé. Ognuno di noi virtualmente contiene tutti i testi possibili, e può capire un'altra esistenza (la sua coerenza interna, il suo ritmo) depositata sulla pagina di un romanzo, soltanto se non ne scorge il «testo» dentro di sé, anche solo come potenzialità inesplosa, se riesce a percepirla come familiare. In questo senso la critica diventa ritrattistica e insieme autoesplorazione avvincente, fatta con l'ausilio della retorica e con la fermezza di un'indagine poliziesca.

Garboli esibisce poi una idea di letteratura plasmata con ogni evidenza sui suoi autori novecenteschi: la pagina letteraria nascerebbe per lui da una malattia misteriosa, da un'insoddisfazione verso la nostra vita, da un'ossessione o da un rimorso, e, di più, «dal bisogno di liberarsi da una passione».

Si tratta di un passaggio delicato. In altra sede Garboli aveva osservato che l'umanità contemporanea si avvia più o meno felicemente verso un mondo sempre più mentale, e dunque più controllabile (nel quale diventiamo compiutamente ciò che siamo: ovvero macchine), in quanto tali più al riparo - illusoriamente - dall'imprevisto e dalla morte. Così Freud ci aveva mostrato come l'essere umano, benché attratto da una vitalità eccitata, febbrile, antieconomica, tenda in realtà ad uno stato di relativa quiete, ad un'emotività ben temperata. Non sappiamo se le pagine di Garboli contengano un messaggio edificante, un «think positive». Non sarebbe però del tutto azzardato trarre una possibile conclusione «propositiva», appena una variante - però significativa - dell'amor fati della tradizione stoica. Se davvero il nostro karma collettivo consiste nella inconfessata vocazione a emanciparsi dalle passioni stesse, non è indifferente sapere come avviene (e a quale prezzo) questa emancipazione. Forse l'auspicio segreto dei saggi garboliani consiste nel perseguire quella meta non attraverso la attuale digitalizzazione dell'esperienza (e suo fatale svuotamento), ma attraverso la letteratura; la quale ci appare così come la più perfetta macchina virtuale, in grado di farci esperire tutti i destini umani e le possibilità di vita perdute, di alimentare tutti i nostri viaggi mentali, senza però appiattire la nostra immaginazione (come fa la tecnologia).

Ed è un punto di vista drammatico perché tutto ciò che la letteratura racconta tende a dissolversi, ad essere sommerso dalle acque, e anche sereno perché si ha comunque la certezza (inverificabile) della «realtà» oggettivamente data, più misteriosa, più resistente di tutte le nostre creazioni letterarie e della nostra immaginazione, e capace di contenere perfino ciò che non si vede, proprio come il Paracleto evangelico.

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