CULTURA

Il romanziere del Talmud

BELLO MINCIACCHI CECILIAUSA/NEW YORK

Sembrerebbe non aver lasciato questioni aperte, Chaim Potok, lo scrittore ebreo newyorkese appena scomparso. E sembrerebbe non averle lasciate data la fecondità della sua narrativa da sempre focalizzata su questioni basilari, su nodi cruciali - mai risolti gordianamente, ma sempre affrontati su onde lunghe, epiche - della sua religione e della sua tradizione culturale in relazione con l'esterno, ma anche con il suo stesso intimo progresso. Ha lasciato, in realtà, un'apertura integrale, quella del dialogo necessario, irrinunciabile tra culture apparentemente serrate nell'incomunicabilità. La questione lasciata aperta, dunque, è questa: necessità/possibilità del confronto fra tradizioni diverse, pervicaci nella convinzione della propria superiorità e ostili nei secoli. Chaim Potok era nato il 17 febbraio del 1929, ultimo dei quattro figli di una famiglia ebrea di origine polacca appena emigrata in America. Il mondo della sua infanzia - e dei suoi principali romanzi, poi - è la New York degli ebrei ortodossi e dell'incontro tra il giudaismo della tradizione e la civiltà occidentale contemporanea. E i suoi studi sono quelli, piuttosto solidi e classici, di un giovane che ottiene prima un diploma in letteratura inglese, nel 1950, poi uno in letteratura ebraica presso il Jewish Theological Seminary, quindi una ordinazione da Rabbi e infine un dottorato in filosofia presso l'Università della Pennsylvania nel 1965. Le sue esperienze umane e lavorative l'hanno visto religioso militare nella guerra di Corea, paese in cui amava dire di aver scoperto la bellezza; responsabile editoriale della Jewish Publication Society of America; docente presso la University of Judaism a Los Angeles. Il suo lavoro di scrittore è stato comunque sempre, negli anni, costante e tenace. La vena narrativa di Potok è fluente e rigogliosa, anche nelle parti più riflessive dei suoi romanzi, quando la materia della narrazione si rarefa per cedere all'inchiesta teologica, storica o filosofica. La sua formazione, del resto, oltre ad avere come chiave di volta Il ritratto dell'artista da giovane di Joyce, testo che ha il valore, per il giovane Potok, di una scoperta illuminante cui dovrà la ferma decisione di dedicarsi alla scrittura, comprende autori del passo di Ernest Hemingway, William Faulkner, Charles Dickens, Mark Twain, Thomas Mann. I romanzi di Potok sono ampie e fascinose costruzioni che si dispiegano senza fretta, che seguono un incedere largo eppure attento ai dettagli. Fin dal suo romanzo d'esordio, The Chosen del 1967, tradotto in italiano come Danny l'eletto (Garzanti, 1983), Potok si è rivelato autore in grado di delineare precisissimi affreschi delle comunità ebraiche newyorkesi, degli intimi conflitti tra ebrei tradizionalisti o rigorosi conservatori e progressisti. Di norma i suoi protagonisti, che spesso tornano in più di un romanzo, quasi a proseguire l'inchiesta intellettuale cui sono stati chiamati a dare persona, si muovono in un passato recente, poco lontano dalla memoria dell'autore o comunque da questa raggiungibile; incarnano aspetti contrastanti ed attuali della loro fede religiosa, come accade nell'amicizia tra i due giovani ebrei del suo primo romanzo, Danny Saunders, destinato a diventare Rabbi ma interessato alle teorie psicoanalitiche freudiane, e Reuven Malter, studioso di teologia, della Torah e delle sottili differenze tra il Talmud cosiddetto Babilonese, il più famoso nella cultura occidentale, e il Talmud Palestinese. Il contrasto su cui è focalizzato il primo romanzo ha una prosecuzione, sempre in apertura dialettica, nel secondo, The Promise, La scelta di Reuven in italiano (Garzanti 1987), che affronta l'impossibile conciliazione tra l'intangibilità dei testi sacri e uno dei doni della cultura Goim, la critica scientifica del testo, conquista delle università dell'Europa occidentale. Appartiene a Potok il convincimento della bellezza dell'altro, della ricchezza che l'altro, l'esterno, il diverso contiene e può comunicare. Dunque, se la prima coppia di romanzi costituiva, nelle parole dello stesso autore, «un esercizio di confronto intellettuale», la seconda coppia, che ha come protagonista Asher Lev - Il mio nome è Asher Lev e Il dono di Asher Lev (Garzanti 1991 e 1992) - pone il confronto, ché sempre di scontro dialettico si tratta, nei termini dei diversi contributi dati da ogni cultura al mondo. E pone sul piatto il contributo - tutto e solo recente - dato dalla cultura ebraica alle arti figurative. Il problema è filosofico in generale ed estetico in particolare, ed è, davvero, il nucleo emblematico della narrativa di Potok. Emblematico perché perfettamente delineato, stagliato nella congerie delle riflessione aporematica che accompagna la sua scrittura. Asher Lev che ha il dono di saper disegnare e dipingere nasce, ebreo, nell'ortodossia più ricca di pietas e di rigore, quella che stigmatizza ogni iconografia come idolatria. Egli, che per la legge che osserva non dovrebbe neppure tratteggiare soggetti umani, dipinge un quadro che si rivela un trauma per tutta la comunità. Nel tentativo di dare forma iconografica al dolore, alla sofferenza estrema, pone in croce un nudo di donna, quello di sua madre, e lo intitola The Brooklyn Crucifixion. Lo strappo è violento e insanabile. Tanto più difficile da comprendere, da elaborare (proprio come un lutto), in quanto Asher Lev rimane un ottimo ebreo osservante: è suo padre ad allontanarlo, mentre lui, dal canto suo, non intenderebbe lasciare la comunità, né sente di aver infranto le leggi. La cerniera che nel padre di Asher Lev rimane chiusa, saldata, e che nel giovane pittore rinnegato e nello scrittore Potok invece problematicamente si apre, è nel convincimento che esista «il lato oscuro della luce, e il lato luminoso del buio» e che il mondo, ogni cosa, anche la più ordinaria - quella da cui per Potok sempre prendono avvìo le cose più importanti - sia un «caleidoscopio». Tutta la narrativa di Potok, allora, compresi i suoi libri per l'infanzia The Tree of Here (1993, tradotto nel `98 da Mondadori con il titolo L'albero di qui) e The Sky of Now (1995), o il suo libro per «giovani adulti» Zebra and Other Stories (1998, edito in Italia da Garzanti nel 1999), e L'arpa di Davita (Garzanti 1989), che indaga il conflitto su due fondamentalismi, il marxismo e lo stalinismo da un lato e il fondamentalismo religioso dall'altro, e Il maestro della guerra (Garzanti 1996), che si interroga sul rapporto tra memoria e storia alla luce delle due grandi guerre e della Shoah, può essere letta in questa chiave, come un corposo e ben strutturato tentativo di mostrare la ricchezza di una realtà multiforme e a volte anche contraddittoria a chi, come il padre di Asher Lev, è convinto che la realtà non sia «caleidoscopica» perché «Dio non è caleidoscopico. Dio non è ambiguo e la fede in Lui non è ambigua. L'ambiguità è il buio. La certezza è la luce. Il buio è l'altro lato». Certo, per Potok «l'altro lato» continua ad esistere, non deve essere né superato, né inglobato. Ma, piuttosto, fatto oggetto di fecondo esame e minuzioso paragone attraverso quello che egli era solito definire «core-to-core culture confrontation». Romanzi che si possono dire a tesi, dunque, quelli di Potok, e in cui la tesi non si aspetta soluzioni univoche, ma è piuttosto la ricerca della possibilità del dialogo e della convivenza in senso ampio e drammatico.



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