«Vedo che ti interessi alle notizie, a cosa accade nel mondo». «No, ascolto solo canzoni, perché dicono la verità. Più sono stupide e più sono vere. E poi non sono stupide, che dicono: non devi lasciarmi, senza di te in me non c'è vita, lascia che io divenga l'ombra della tua ombra, oppure senza amore non sono niente...» (François Truffaut, La signora della porta accanto, 1981). Chi si occupa degli anni sessanta e Settanta con un approccio di tipo storiografico spesso tende a lamentarsi per l'assenza di una storiografia consolidata e per le resistenze da parte accademica ad accettare pienamente questo argomento all'interno dei curricula scolastici e universitari. In realtà questo disappunto, di fronte a un'analisi più attenta e aggiornata, rischia di diventare una sorta di «luogo comune», incapace di cogliere le trasformazioni in atto e i risultati già acquisiti. Se, infatti, il tema degli anni Sesanta e Settanta, soprattutto se analizzato utilizzando i movimenti sociali come osservatorio privilegiato, non è ancora pienamente «legittimato» negli studi accademici di storia, d'altra parte, nelle università stesse, le tesi di laurea e di dottorato su questi argomenti non risultano più sporadiche e parallelamente la produzione di libri e saggi su questi temi è divenuta considerevole, anche da un punto di vista qualitativo. Certo non sono le grandi firme della storiografia nostrana a scrivere su questi argomenti (come al contrario avviene in occasione dei vari anniversari), ma sia fra i giovani storici che fra altri più attempati studiosi - per lo più rigorosamente esterni al mondo universitario - un dibattito vivace e produttivo è ormai aperto da diversi anni.
In questo quadro si colloca il volume appena uscito di Diego Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza (Bfs Edizioni, Pisa, pp. 240, 18 euro).
Giachetti, che ha al suo attivo diversi altri volumi su quella che è stata definita la stagione dei movimenti, va collocato nella schiera di quegli studiosi più attempati (non me ne voglia), che provenendo dall'esperienza stessa dei movimenti degli anni Sessanta e Settanta, è riuscito a spogliarsi del ruolo di «testimone» dell'epoca per articolare, con un uso attento e filologicamente corretto delle fonti disponibili, una serrata riflessione su quegli avvenimenti e sulla loro interpretazione.
In questo libro Giachetti, partendo dall'esplosione della musica giovanile anche in Italia all'inizio degli anni Sessanta - il beat, lo yè-yè, i capelloni, il Piper - costruisce una narrazione capace di individuare i profondi legami fra l'insorgere di una specificità giovanile, veicolata da musica e consumi, e l'esplosione di conflittualità che ha nel Sessantotto il suo anno simbolico. I primi urlatori e la musica beat si intrecciano con l'improvvisa presenza giovanile nelle grandi manifestazioni di strada contro il governo Tambroni nel luglio del 1960 e con quella ugualmente sorprendente di giovani operai meridionali immigrati negli scontri di Piazza Statuto del 1962; l'apertura del Piper, con Patty Pravo che invita i suoi coetanei un po' tristi e sognatori a resistere perché «un giorno, spero cambierà vedrai», a sua volta si confonde con l'esperienza dei beat milanesi o con l'occupazione dell'università di Roma nel 1966, dopo la morte di Paolo Rossi per colpa dei fascisti.
Il tema della coesistenza fra una dimensione subculturale e una politica nei movimenti di quegli anni è uno dei nodi storiografici maggiormente dibattuti, intrecciandosi con il problema della periodizzazione, riferita specialmente al `68: il breve Sessantotto, una fiammata di alcuni mesi spenta dall'egemonia della politica e dalla formazione dei gruppi della nuova sinistra, contro il lungo `68, che colloca all'inizio dei `60 il primo manifestarsi di quell'insubordinazione giovanile che in seguito si diffonderà per contagio a gran parte della società.
Da questo punto di vista Diego Giachetti sposa completamente la seconda lettura, rifiutando, però, allo stesso tempo le tesi di chi tende a separare in maniera drastica le dimensioni culturali e politiche nei movimenti, leggendo nell'egemonia dell'una la totale scomparsa e subordinazione dell'altra, in una rappresentazione di quegli anni priva di chiari e scuri, di compresenze, di ibridazioni, fra un universo politico a tutto tondo e un altro controculturale, emarginato e rifiutato. Al contrario in questo bel libro la narrazione tiene bene insieme, per concludere con una battuta, Renzo Arbore e Mario Capanna, evitando di limitare l'esplosione di comportamenti tipica di una parte dei giovani all'inizio dei Sessanta nel limbo del costume e della moda (quasi si trattasse di una manifestazione eterodiretta dal dio mercato bisognoso di nuovi target), ma allo stesso tempo cogliendo i nessi e i legami che portano non pochi di quei «ragazzi di strada», quei «poco di buono» cantati da Demetrio Stratos con «I Corvi» nel 1966, sulla scalinata di Valle Giulia il 1 marzo del 1968 a cantare «non siam scappati più».