«Ara bell'ara discesa cornara»: una curiosa e sibillina filastrocca che ha accompagnato per anni Alberto Cavaglion, fino a scoprirne per caso origine e significato grazie a Giovanni Orelli. Si tratta della traduzione in romanesco del più misterioso verso della Commedia, papé satàn papé satan aleppe, che Carlo Porta mutuò da una conta in uso a Roma; un modo per dire chi sta dentro e chi sta fuori, chi appartiene ad un gruppo e chi ad un altro. La filastrocca si rivela quindi un motto di apertura particolarmente felice per un libro come Ebrei senza saperlo (L'ancora del mediterraneo, 2002) nel quale Cavaglion raccoglie una serie di saggi ripercorribili lungo alcune direttrici tematiche, che vanno dall'identità ebraica - e soprattutto degli individui che la compongono - al suo ruolo nella società, dalla sua storia novecentesca alle legislazioni che l'hanno riguardata (in particolar modo la legge fascista sulle comunità ebraiche del 1930), e ancora al ruolo svolto da figure come Primo Levi, Arturo Jemolo, Carlo Treves e molti altri. Il tema della problematicità del concetto di minoranza si sviluppa intorno all'immagine dell'arca - utopia minima, luogo di calore e fattore di civiltà, oltre che di identità - contrapposta a quella della piccola patria come chiusura asfittica, potenziale di esclusione, che Cavaglion chiama «sorta di leghismo particolaristico» votato al «museo con i ricordi del bel tempo che fu, le giornate della memoria, le settimane della cultura ebraica», in un atteggiamento che viene deriso in Umberto Bossi ma quasi coltivato nell'ambito domestico. Nella presentazione del libro alla Fiera di Torino, ieri pomeriggio, Marco Belpoliti ha ripreso l'idea dell'esigenza di un diverso rapporto fra memoria e oblio, che tenda ad un superamento del passato, ad un atteggiamento differente dalla «mnemagogia» sulla shoah, per arrivare finalmente a «chiedere di essere giudicati per quello che si è capaci di dare, e non limitarsi soltanto a ricordare», come scrive Cavaglion. Frase che l'autore mette in campo sia per la minoranza ebraica che per la sinistra in generale, altro tema toccato dai saggi. Anche Elena Loewenthal ha scritto recentemente un libro sull'identità - non in forma di saggio ma di una narrazione che ripercorre una «storia vera», come tiene a sottolineare l'autrice - dal titolo Lo strappo nell'anima (Frassinelli. Il libro verrà presentato alla Fiera di Torino lunedì pomeriggio alle 17). Loewenthal racconta in prima persona la vita che una donna, la protagonista del libro, le ha narrato in lunghi e drammatici colloqui. La storia di Stefania comincia prima della sua nascita, quando il padre, medico ebreo ungherese che vive a Roma - grazie all'aiuto di un gerarca suo paziente - riesce a cancellare con la scolorina il nome della propria famiglia dalle liste ricavate dal censimento, donandole così un'esistenza lontana dall'emarginazione e dalle deportazioni dei correligionari. Stefania nasce nel 1940, senza conoscere nulla del destino a cui sarebbe andata incontro senza quella cancellazione, festeggiando il Natale ma convivendo con un padre che di tanto in tanto si ritira nella sua stanza con la kippah in testa, e conducendo dopo la guerra una vita del tutto normale, che contempla anche il matrimonio, fino alla scoperta della tossicodipendenza del figlio. Questo avvenimento scatena in lei una grande crisi, che la sua analista individua in «un nocciolo interiore che trasuda buio e vuoto»: la macchia di scolorina è divenuta col tempo il centro della sua vita, impedendo la nascita di un'identità, che Stefania cercherà di ricomporre, con studi, viaggi e con un percorso di avvicinamento a quelle radici ebraiche che il gesto del padre, pur certamente salvifico, aveva reciso di netto.