MONDO

«Il governo egiziano vuole metterci a tacere»

LAI CAMILLAIL CAIRO

«In questo paese bisogna imparare a fare i conti con l'inaspettato». Mancano pochi giorni al momento in cui dovrà comparire, per la seconda volta, davanti alla corte egiziana per la sicurezza dello stato ma l'appuntamento con la giustizia non sembra aver fatto perdere a Saad Eddin Ibrahim la sua tranquillità. Docente di sociologia all'università americana del Cairo, in possesso di doppia cittadinanza egiziana e americana, ma soprattutto militante di diritti umani, Ibrahim ha fondato nel 1988 il centro Ibn Khaldun per la democrazia e i diritti dell'uomo, con il quale ha sostenuto numerose battaglie civili (tra le altre, campagne di educazione elettorale rivolte alle donne, prestiti e microcredito per sottrarre i più poveri ai finanziamenti interessati dell'attivismo islamico). Battaglie che le autorità egiziane hanno sempre tollerato, almeno fino a quando il centro non ha annunciato la sua intenzione di voler monitorare le elezioni per verificarne la legalità. Per Ibrahim le manette sono scattate la notte del 30 giugno 2000. Dopo sei settimane di carcere viene processato in base alla legge di emergenza promulgate nel 1981 dopo l'assassinio di Sadat, che esclude il ricorso in appello. Innumerevoli i capi di imputazione: corruzione, sottrazione di fondi esteri, manipolazione dei mezzi di comunicazione, diffusione di informazioni false per danneggiare l'immagine internazionale dell'Egitto. L'attenzione internazionale che ha suscitato il caso di Saad Eddin (in suo favore si sono mosse sette organizzazioni umanitarie, tra cui Amnesty International) ha spinto la Cassazione, il 6 febbraio scorso, ad annullare la sentenza di primo grado. Qual è stata la motivazione?

Hanno ammesso che il processo non si era svolto in modo conforme alla legge. La Cassazione, l'unico tribunale egiziano non direttamente influenzato dall'esecutivo, non sindaca il merito della decisione, ma sostiene che durante il processo la violazione di norme sostanziali aveva inficiato la correttezza della procedura.

E ora?

Il governo non è obbligato a rifare il processo e spesso capita che processi annullati finiscano nel dimenticatoio. Ma il mio andrà avanti e potrà durare dai 2 mesi a un anno. Nel frattempo, possono decidere di rimettermi in carcere.

Colpendo lei, che è anche cittadino americano, stanno forse cercando di ridurre al silenzio tutti gli attivisti?

Sì, e bisogna ammettere che il governo è riuscito, almeno in parte, nel suo scopo di intimidire chi lotta per la difesa dei diritti umani nel paese. Le nostre giornate somigliano ormai a quelle dei guerriglieri. Ci riuniamo ancora tutti i martedì pomeriggio, in altre sedi, visto che hanno chiuso e devastato il nostro centro. È stata una mossa stupida, perché noi proiettavamo all'esterno l'immagine di un Egitto migliore.

È ottimista?

Per forza. So che alla fine vinceremo la lotta allo sviluppo, perché il futuro è nostro alleato. Sono sei anni che provano a farmi tacere. Hanno cominciato nel 1994, quando l'Ibn Khaldun organizzò la prima conferenza sui diritti delle minoranze nel mondo arabo.

Dopo sei anni, qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?

Ce lo siamo chiesti con i miei avvocati per 45 giorni. Mi hanno arrestato il 30 giugno. Il 29 era uscito il mio ultimo articolo sul quotidiano al Magalla, intitolato «Gomlokeya».

Che significa?

È una parola che ho coniato io, da gomhoreya (repubblica) e malakeya (monarchia o dinastia), per spiegare il contributo arabo al sistema politico del ventunesimo secolo: una nuova forma di governo, sembra una democrazia ma in realtà è una devoluzione di potere da padre a figlio. L'articolo è stato subito ritirato. Scomparso e quindi nemmeno ammissibile agli atti del processo.

Come imposterete la difesa?

Sosteniamo l'incostituzionalità della legge di emergenza e del decreto ministeriale numero 4 del 1992, in base al quale i fondi esteri devono ricevere una previa autorizzazione governativa.

L'accusano di aver sottratto fondi dell'Unione europea, anche se la stessa Ue smentisce il fatto...

Quando fondai il centro Ibn Khaldun, nel 1988, trovai un articolo nel codice civile che mi consentì di dotare il centro studi di personalità giuridica mantenendo autonomia di movimento. Ho preferito pagare le tasse piuttosto che essere esente e non poter pensare liberamente. Per un po' ha funzionato. Riceviamo fondi Ue dal 1998. E il decreto numero 4 non si applica a noi, proprio perché siamo una società senza scopo di lucro. I fondi passano attraverso il governo, perché l'Egitto ha firmato la Dichiarazione di Barcellona con l'Europa. Per capire bisogna fare attenzione al momento in cui hanno colpito. L'Ue ci aveva finanziato un programma per monitorare le elezioni, visto che l'Egitto rifiuta osservatori internazionali, con la scusa dell'interferenza imperialista neocoloniale. Già nel 1995 avevamo prodotto un rapporto che denunciava le frodi nell'intero sistema elettorale e numerosi casi di violenza nei distretti in cui i candidati dei Fratelli musulmani rappresentavano la maggioranza. Il dossier è stato usato come prova a sostegno dei candidati che avevano perso le elezioni e che hanno presentato ricorso (88 cause, ndr).

Anche sul processo è ottimista?

No. So che c'è sempre un prezzo da pagare. Il mio mi sembra minimo, rispetto alla lotta per la democrazia, all'emancipazione umana, ai diritti dei bambini palestinesi.

Cosa pensa della situazione in Palestina?

È come nell'82, ai tempi dell'invasione del Libano. L'unica differenza è che ora i palestinesi sono più forti, perché stanno lottando da soli nella loro terra contro la brutale macchina militare israeliana. In passato avevano avuto il pur poco efficace sostegno di altri stati arabi. Stavolta stanno mostrando al mondo la propria forza e l'impotenza dei regimi arabi



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