CULTURA

Terzani dal fronte di una verità sepolta

MASI EDOARDAAFGHANISTAN

Nell'ultimo libro di Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, appena uscito da Longanesi, si ritrova la passione civile e umana, l'onestà, la forza della scrittura che conoscevamo in questo autore fin dalle sue prime opere: le corrispondenze dal Vietnam dal `72 al `75, ripubblicate di recente. Sono qualità che lo hanno accompagnato indipendentemente dai mutamenti che il trascorrere del tempo, della storia e della vita individuale hanno prodotto in lui come in tutti. Ma ad esse se ne aggiunge una specifica, che fa di questo autore una personalità eccezionale nel giornalismo italiano: Tiziano Terzani è un grande reporter, per il quale non esiste una realtà che non sia quella vissuta in prima persona. È sempre a verificare, a domandare, sul posto; è lui stesso parte e personaggio del racconto. Non si tratta di un espediente stilistico. Raccontare eventi e persone sperimentando dal vivo fa tutt'uno con la posizione mentale di chi, per principio e metodo, si pone dalla parte degli altri. Al rischio scontato dell'errore fanno riscontro enormi vantaggi nella trasmissione al pubblico delle esperienze e delle conoscenze. Credo non sia estraneo a questo modo di fare giornalismo il fatto che Terzani per tutta la vita si è occupato dell'Asia, dove ha vissuto e continua a vivere - pur senza abbandonare la sua personalità di europeo, anzi di italiano, anzi di fiorentino. Ha studiato la lingua e la cultura cinese, poi ha esteso le sue conoscenze alle culture e alle religioni di altri paesi asiatici - del Giappone, dell'India da lui molto amata e dove ha la sua abitazione principale. Questo suo ultimo libro muove da un sentire diffuso fra tutte le persone che abbiano un minimo senso della decenza. Non occorre oggi essere pacifisti (o, per altro verso, comunisti o socialisti, o cristiani o buddhisti) per collocarsi senza esitazioni sul fronte contrario alle guerre in corso. Il grado di distruttività del sistema economico-politico-militare che ci domina è arrivato a vertici parossistici, e la gratuità, l'assurdità dalla morte e delle atroci sofferenze inflitte senza motivo apparente a intere popolazioni hanno come rovescio positivo, se non altro, il fatto di disvelare per intero quello che le varie retoriche belliciste avevano tenuto fino a ieri almeno in parte celato: non esiste conflitto fra esseri umani tale da giustificare, per risolverlo, l'uso delle armi.

«È un vecchio detto - scrive Terzani - che in tutte le guerre la verità è la prima a morire. In questa la verità non ha fatto neppure in tempo a nascere. (...) Quelli che davvero contano in questa guerra di bugie sono gli spin doctors, gli esperti in comunicazione, gli addetti alle pubbliche relazioni. Sono loro ad offuscare il fondo di inutilità di questa guerra e ad impedire così all'opinione pubblica del mondo, specie quella dell'Europa, di prendere una posizione morale e creativa in proposito. (...) La verità di questa guerra sembra essere così indicibile che ha costantemente bisogno di essere impacchettata, di essere «gestita», di essere oggetto di un'astuta campagna di marketing. Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi. L'unico modo di resistere è di ostinarsi a pensare con la propria testa e soprattutto a sentire col proprio cuore.»

Il nocciolo di questo libro, la parte più sostanziosa e più bella, sta nelle tre lettere centrali, da Peshawar, da Quetta, da Kabul. Una volta tornato in terra asiatica, le evidenze si fanno più chiare. Gli americani tornano ad essere americani, considerati come tali dall'osservatore, non più fagocitato in una comunanza fittizia mascherata dietro l'uso improprio del termine «Occidente». Viene naturalmente riconquistata l'identità di italiano, anche quando - grazie all'operato dei nostri governanti - della nostra nazionalità siamo costretti a vergognarci. Come accade a Tiziano all'ospedale di Quetta, quando da un uomo col ventre squarciato da una scheggia gli viene rinfacciato: «Prima vieni a bombardarci, poi a portarci i biscotti. Vergogna».

All'idea dello «scontro di civiltà» Terzani si oppone con forza, ricordando che «La grandezza delle culture è anche nella loro permeabilità.» E spezza le lenti deformanti che in un nuovo etnocentrismo americano pretenderebbero di riassumere l'intera tradizione europea (l'Occidente, per l'appunto). La storia d'Europa è più antica e più ricca della sua fase di decadenza nel colonialismo ottocentesco - anzi nella parte peggiore del colonialismo, quella cultura della sottovalutazione e del disprezzo dei popoli assoggettati. Assumere l'eredità europea nella sua integrità riesce più facile a chi fin dalla giovinezza è stato un conoscitore e uno studioso delle culture dell'Asia. Un osservatore che conosce la storia, sa che per centinaia e centinaia d'anni le regioni dell'Asia Centrale sono state il punto focale dell'incontro non di due assurdi fanatismi, ma di civiltà, orientamenti culturali, modi di vita (nomadi e sedentari, agrari e urbani), religioni, lingue, letterature, filosofia, scienza, arti della pace e della guerra. Scrive Terzani: «L'Afganistan è stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le merci, tutte le arti. Qui sono nati un visionario-filosofo come Zarathustra, un poeta come Rumi, qui sono nati gli inni vedici che son all'origine delle scritture sacre indiane, e da qui à venuta la prima analisi grammaticale del sanscrito, la lingua a cui tutte le nostre debbono qualcosa. Da qui son passati tutti quelli che nei secoli sono andati a derubare l'India delle sue ricchezze materiali e da qui è passata la ricchezza spirituale dell'India, il buddhismo, prima di diffondersi nell'Asia centrale, in Cina, in Corea e alla fine in Giappone. E proprio in Afganistan, il buddhismo, incontrando la grecità che Alessandro il Macedone si era lasciato dietro, s'è espresso nelle sue più raffinate forme artistiche. L'Afganistan è una vasta, profonda miniera di storia umana, sepolta nella terra di posti come Mazar-i-Sharif, Kabul, Kunduz, Herat, Ghazni e Balkh, l'antica Bactria, conosciuta come `madre di tutte le città'.»

Non è forse un caso che in queste regioni e intorno ad esse si concentri ora la furia del processo di ricolonizzazione di gran parte del mondo necessaria per l'ulteriore «crescita» del capitale e mascherata sotto il termine vago di «globalizzazione». Ai paesi dell'Asia, grandi e piccoli, che nel ventesimo secolo si sono liberati dal colonialismo non deve essere consentito altro che obbedire ai diktat del potere imperiale, altrimenti saranno definiti stati canaglia, oppure complici del «terrorismo» - termine impiegato al di fuori del suo significato originario e che semplicemente sostituisce quello di «comunismo» nell'indicare il male assoluto. La civiltà che rischia la distruzione è anche nostra, giacché siamo parte del grande continente euroasiatico. Chi mira al dominio assoluto del denaro - non più mediatore di scambi ma puro feticcio totalitario - per conquistare l'Asia meridionale e orientale e controllare, d'altro lato, le regioni europee, ha bisogno di colpire questo nucleo centrale di comunicazione, essenza di eredità storica. Se questo è il punto estremo al quale siamo giunti, va però rilevato che non c'è soluzione di continuità dalla guerra in Vietnam e dal colpo di Suharto e della Cia in Indonesia (quasi un milione di morti), agli attacchi portati contro il fronte dei paesi non impegnati negli anni sessanta, all'affronto verso Cuba, via via fino alle politiche statunitensi in America Latina e verso l'Iran e l'Iraq, alle guerre in Palestina, alle provocazioni che proprio in Asia centrale hanno spinto anche l'Unione Sovietica verso politiche disastrosamente repressive. E poi, la guerra del Golfo, i conflitti nei Balcani; le provocazioni ripetute nei confronti della Cina; gli stessi propositi di attacco alla Corea del Nord (che non è un paese islamico, come non lo è la Cina). Che sia l'Islam l'ideologia dell'opposizione al potere imperiale consegue solo dalla (si spera temporanea) assenza di una opposizione fondata su analisi economiche e su valori sociali, morali e politici alternativi a quelli imposti dalla logica della riproduzione del capitale, e tali da associare in fraternità popoli e individui, indipendentemente dalle fedi religiose, dalle specifiche tradizioni e dalle molteplici e diverse eredità culturali. Tiziano Terzani non arriva a queste conclusioni, almeno, non esplicitamente. Ma quello che il reporter si vede accadere intorno supera la capacità di immaginare e di sopportare.



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