«Il centrodestra, si sa, è forte in voti ma carente in legittimazione culturale. Piace pochissimo a letterati e ad artisti e poco anche agli uomini di scienza». Di tanto si duole Angelo Panebianco nell'articolo di apertura del Corriere della Sera del 26 febbraio. E premesso che i «nemici del centrodestra lo accusano di crimini, di attentare alla democrazia», e che «in politica...ci sono cose peggiori dei crimini: gli errori», egli si affanna a suggerire ai nuovi governanti rimedi che valgano a ridurre la loro... impopolarità culturale: intervenire in maniera meno centralistica e burocratica nella politica universitaria, investire sulla ricerca scientifica. Una tale terapia ci pare prescinda dalla considerazione di una ben più complessa patologia, e che non voglia radicarsi su opportune considerazioni di carattere storico. Ma il discorso cade opportuno. Perché le sciocchezze che si vanno scrivendo sulla cultura di sinistra (di cospicua legittimazione culturale questa sarebbe tuttavia infestata da visionari apocalittici pronti a scorgere segnali del fascismo dappertutto) hanno ormai stancato, mentre si scrive troppo poco della incultura della destra.
Il tema non è nuovo. Già Gobetti rilevava la grave iattura di un dibattito politico italiano nel quale la destra non riusciva ad essere un valido interlocutore, rendendolo incompleto, privandolo di sue fondamentali motivazioni culturali. E Gramsci annotava con rammarico di studioso che la destra italiana gli appariva culturalmente «non vertebrata».
Si tratta - di fronte alla grande tradizione politico cultura della destra inglese e francese - di un complesso problema della nostra storia, riferibile, vogliono alcuni, in buona parte alla ancora troppo recente e composita conquista della indipendenza nazionale, ed alla conseguente scarsa solidità di una cultura dello stato, matrice naturale della politica di destra.
In un articolo di giornale una tal problematica non può essere adeguatamente affrontata, ma è legittimo di volta in volta sottoporre a oggettiva disamina quanto sta accadendo nel paese. Non per formulare vaticini («è il fascismo che arriva...») ma per rilevare oggettivamente la natura culturale e politica di ricorrenti affermazioni, atteggiamenti, comportamenti. Se tanto vale l'accusa di essere apocalittici, ebbene, una tale accusa ha un suo significato, se chi la formula per favorire il principe vuole tranquillizzare e imbonire la pubblica opinione.
E' pur vero che in un'epoca caratterizzata dall'irrazionalismo (secondo il giudizio di classici del liberalismo quali Croce e Huizinga) il sonno della ragione produsse mostri: i professori universitari che nel `31 non giurarono fedeltà al fascismo furono una dozzina, su 1200 cattedratici. Dalla cattedra al laticlavio: i senatori che non votarono le leggi razziali nel `38 - pur essendo protetto il loro voto dal segreto dell'urna - furono soltanto 10 su 154. Ma ciò che conta non è reinquadrare illegalismo ed antidemocratismo attuali in una ripresa di marcia del fascismo.
Ci si lasci rilevare che nelle citate occasioni storiche, rispettivamente, si stava consolidando nel `31 ed era pienamente dominante del `38, una cultura ufficiale di sudditanza. Una cultura volta agli aspetti esecutivi - output, come li definiscono i sociologi - rispetto alle decisioni; una cultura non partecipe della libera creatività del lavoro intellettuale, e servile. Orbene, scrivere di un'attuale cultura italiana di sudditanza non significa confonderla storicamente con la cultura che esaltò il fascismo, nata da un dopoguerra nel quale aveva maturato suoi miti, alla scuola di una antidemocrazia patriottarda che teneva banco da lustri in Europa. Nell'attuale situazione della democrazia italiana, è dato poter cogliere fenomeni di affarismo illegalitario che soltanto futuri storici potranno inquadrare in precise categorie di valutazione critica, ma che l'informazione politico culturale ha ora il dovere urgente di esplorare e di denunziare, individuandone i caratteri distintivi.
Agli intellettuali che già possono essere definiti di sudditanza, e che minacciano di divenire centurie, naturalmente tutto ciò non piace. Pronti, alla ricerca di allori, a plaudire, a giustificare ritrovati quali la tristemente nota modifica della legge sul falso in bilancio, ed il varo di quella legge sulle rogatorie che ci è già valsa scorno in tutta Europa, costoro già osannano alla scomparsa di uno dei tre poteri dello stato, quello giudiziario, sostenendo tuttavia con loro non sottili ragioni che la salvezza di tale potere è stata invece assicurata dai nuovi governanti.
Fra gli allineati, c'è ancora chi si concede una certa prudenza, là dove naturalmente questa non implichi il coraggio della indipendenza intellettuale. Alcuni direttori di quotidiani indipendenti, praticano lo sfoggio di qualche posizione bipartisan, come ora si ama dire, ma vi sono significativi silenzi, e comincia ad essere diradata o respinta la collaborazione di firme ormai compromettenti: le firme di coloro che pensano, e che vorrebbero continuare a pensare. Rappresentano un pericolo. Lo ha scritto un poeta dalle rive dell'Avon: «...pensa troppo, è così che gli uomini divengono pericolosi».
E' cosa esilarante, ma è troppo triste per compiacersene, leggere l'opinione ammirata di noti giuristi (occhieggianti da riconoscente fotografia fra le colonne di interviste loro fatte) su aberrazioni oggi perpetrate in violazione di elementari principi di diritto e di giustizia. Valga considerare qualche momento dell'ultima cronaca politica. Quando il processo Sme nello scorso gennaio giunse ad una svolta che parve decisiva in punto... suo seppellimento coatto, comparvero nei giornali tempestivi segnali di consenso a siffatto tentato funerale della giustizia. Tanto, da parte della più versatile intellettualità italiana, da parte di tuttologi della cultura. Proviamo a scegliere una perla fra le cento possibili.
Ma prima, ci si consenta ancora una citazione, da un fondo del Corriere della Sera (del 3 febbraio): rappresenta la posizione di quanti almeno su certi punti vorrebbero collocarsi nel mezzo, «tra berlusconiani ed antiberlusconiani». Esistono infatti zone che si autodefiniscono neutre, occupate da chi forse si rende conto di essere stato a un gioco che non era il suo, e reclama ora la propria autonomia in ordine a certi valori. Si tratta della posizione: di quanti sul conflitto di interessi ritengono che questo esista, e che sia «una questione grossa come un macigno»; di quanti, «conoscendo il mondo» (quanto è serena questa espressione!) «non fan fatica ad ammettere che Silvio Berlusconi, per muoversi con successo nell'ambiente in cui per trent'anni si è mosso, abbia potuto violare questa o quella legge»; di quanti, ritengono infine che se Berlusconi cadesse a seguito della sentenza Sme, «si aprirebbe una lunga fase di pasticci ribaltoneschi, di disintegrazione» (e «sarebbe tutto ciò utile al paese?»), e pertanto non postulano «l'abbattimento per via giudiziaria del governo Berlusconi».
In ordine a tal'ultimo punto l'articolista afferma senz'altro che «i processi vanno fatti, anche quelli contro il Cavaliere», ma che non gli si deve chiedere di fare «il tifo politico per una sentenza», né di compiacersi se poi una immeritevole sinistra - di questa elenca efficacemente passate inefficienze - dovesse ottenere il regalo della caduta del governo Berlusconi a seguito di sentenza di condanna di un tribunale ordinario. Ciò che non piace dell'articolo è la morale finale: «noi per fortuna non abbiamo il compito di fare giustizia, la giustizia hanno il compito di farla i giudici, e i giudici soltanto, nella drammatica solitudine della loro coscienza che rispetteremo comunque fino in fondo».
Vien fatto di chiedersi: significa rispettare la coscienza dei giudici prospettare loro un patrio disastro se dovessero condannare Berlusconi in adempimento del loro dovere di giudici? E «la drammatica solitudine della loro coscienza» dovrebbe valere ai giudici soltanto quando giudicano non i capi di governo ma i classici ladri di polli?
C'è da augurarsi che l'autore dell'articolo - che è Galli della Loggia - abbia modo di chiarire più compiutamente il suo pensiero. Ma eccoci alla citazione, ben diversa nel taglio, che avevamo promesso: si attesta sulle posizioni di una tesi giuridica, finissima: il capo del governo ha vinto le elezioni, il popolo lo ha votato egualmente pur conoscendo che era fra gli imputati nel processo Sme. Ebbene, il popolo prevale sulle esigenze del rito giudiziario. Nel Messaggero del 17 gennaio è stato scritto che «una ipotetica sentenza emessa da un tribunale, solo simbolicamente pronunciata in nome del popolo italiano, non può sovrapporsi al generale consenso informato che l'intero popolo sovrano ha accordato» all'imputato. E si auspica: «il suo processo si farà, nel pieno rispetto della legge penale, quando tornerà ad essere un cittadino qualunque».
Eccoci di fronte ad una nuova categoria del pensiero giuridico che si affaccia con singolare forza etico politica nella dimensione costituzionale: la teoria del consenso informato, in virtù della quale quei capi di governo che in altri paesi subirono processi penali furono vittime di un'autentica forma di strabismo illiberale ivi vigente. La coraggiosa teoria che abbiamo citato, si affida invece a un solido ancoraggio liberale: non v'è chi nol veda, la magistratura smentendo la volontà popolare, attenterebbe alla libertà.
Di fronte alla libertà anche i più acuti e intemerati giuristi devono avere paura. E' un sentimento naturale la paura, di fronte a cosa tanto grande. Massimo D'Azeglio, sorridente gentiluomo piemontese d'altri tempi, ebbe a scrivere: «la libertà assomiglia ad un cavallo, bello, forte e bizzarro, vedendo il quale molti sentono la voglia di cavalcare, ma molti altri sentono la voglia di andare a piedi».
Emilio R. Papa è professore di storia del diritto medievale e moderno alla facoltà di economia dell'università di Bergamo