Qui sta l'altrove
di uno scrittore
" D
E' morto in Inghilterra il grande autore tedesco
che ha fatto della sua scrittura un luogo di rivisitazione
delle rovine lasciate in eredità dalla Storia.
Non ebreo, ha scelto come protagonisti figure
della Shoah, nutrendo la musicalità della sua prosa
con rimandi a Kafka, a Stendhal, a Stifter, a
Bernhard
MASSIMO BONIFAZIO
La notorietà gli arrivò con le opere in prosa, specialmente nel
mondo anglosassone, dove è andato raccogliendo grandi lodi da
critici e scrittori come James Wood, Susan Sontag, Antonia Byatt.
Approdato alla narrativa verso i quarant'anni, ci ha lasciato
Nach der Natur (Secondo natura, 1989, non ancora
tradotto in italiano) che consiste di tre lunghi, intensi poemi,
ognuno dei quali ha al centro un personaggio: Georg W. Steller -
botanico al seguito di Vitus Bering nella spedizione verso
l'Alaska - il pittore Matthaeus Grünewald, e un Io che ha tratti
evidentemente autobiografici. Una caratteristica, questa, che
permane nelle opere in prosa successive, dove c'è sempre una voce
narrante con tratti così simili a quelli di Sebald da far
dimenticare quella prudenza critica che respinge le
identificazioni narratore-autore. Certo, tutto questo è voluto
per disorientare il lettore ed evitare - sebbene con un
procedimento paradossale - letture troppo ingenue. La stessa voce
ritorna in due dei quattro racconti di Schwindel.
Gefühle. (1990, Vertigini, in corso di traduzione),
in cui si descrivono due viaggi: il primo in Italia, dove il
narratore è preda di deliri allucinatori e manie di persecuzione,
il secondo a W. - evidente richiamo a Wertach, paese natale di
Sebald - dove in una sorta di pellegrinaggio egli ricerca le
origini della malinconia esistenziale che lo affligge. Gli altri
due racconti sono dedicati a episodi della vita di Henry Beyle -
alias Stendhal - e Franz Kafka, i cui spettrali personaggi
ritornano continuamente nelle opere di Sebald.
I quattro racconti, infatti, a un'attenta analisi si rivelano
strutturati intorno a una rete di rimandi che si riferiscono
tutti al frammento di Kafka Il cacciatore Gracchus. Si
delinea così una caratteristica basilare dell'opera di Sebald: la
dovizia dei rimandi intra ed extratestuali, che amplifica la
dimensione in cui il testo può risuonare di significazioni. Non
si tratta solo di citazioni esplicite e cifrate, ma anche di
richiami formali, ad esempio stilistici. Sebald scrive in una
prosa che più di un critico ha definito musicale; nelle pagine
spesso prive di paragrafi si succedono lunghissime frasi,
incastonate l'una nell'altra, recuperando lezioni anche molto
lontane fra loro, accomunate dall'essere per certi versi
maniacali, ognuna a suo modo: nell'elegante complessità ci sono
echi di Adalbert Stifter, ad esempio, ma anche contorcimenti e
tirate di odio che richiamano Thomas Bernhard, sinistre atmosfere
kafkiane, racconti di viaggio alla Bruce Chatwin. La prosa che ne
nasce è proteiforme, seducente, ipnotica: una superficie su cui
lo sguardo del lettore scivola ammaliato, lontana com'è da quelle
frammentazioni formali a cui ci ha abituato il Novecento. Ma se
Stifter è presente nello stile, certo non lo è nelle intenzioni
di fondo del testo, che non offre volontà pacificatorie. La
scrittura non copre il male del mondo, ma lo mette in evidenza,
con tutta l'intensità di una lingua che si sforza di rimanere
intatta. Che si rifletta nei sereni paesaggi del Suffolk o in
quelli devastati dall'indistrializzazione di Manchester o di
Lódz, l'apocalisse è sempre imminente, e risulta tanto più
spaventosa quanta più eleganza viene messa in campo per
segnalarne i presagi. O i ricordi. Come per ogni malinconico, la
memoria svolge un ruolo centrale nella cosmologia intellettuale
di Sebald e del suo narratore. Non a caso, disseminate in tutti i
suoi testi in prosa compaiono molte fotografie, che richiamano ad
un tempo il passato e il dubbio su di esso: cosa rappresentano
davvero? Sono un sostegno per la memoria, oppure la fuorviano?
Sono documenti, prove storiche, o rimandano solo a se stesse e
alla malinconia che evocano?
Negli Emigrati (Die Ausgewanderten, 1993, trad.
a cura di G. Rovagnati, Bompiani, 1996) Sebald ripercorre il
processo attraverso il quale sono state ricostruite quattro vite
di uomini, tutti emigrati dalle loro patrie per fame o per
sfuggire alla persecuzione. Il passsato resta come centro della
vita mentale, luogo da cui è impossibile sfuggire. Il tempo non
sana le ferite, le approfondisce, le carica di significati. Così
due personaggi, Henry Selwin e Paul Bereyter, moriranno suicidi,
uno, il suo prozio, in manicomio, mentre la fine del quarto, il
pittore Max Aurach, sarà velata dal peso di una colpa
inaccettabile: essere sfuggito all'orrore, diversamente dai
propri genitori, vittime della Shoah. Il male non passa, nemmeno
dopo quarant'anni. Il non ebreo Sebald si appassiona ai destini
ebraici, rimprovera esplicitamente ai suoi compatrioti il
silenzio, la non volontà di affrontare il passato. Dalla
periferia in cui si è esiliato affronta le sfumature di
esperienze anch'esse periferiche: persone sfuggite alla morte,
che sono arrivate tardi alla coscienza di ciò che è stata davvero
l'esperienza dei lager, oppure individui toccati solo
marginalmente dal dramma, come il maestro Bereyter, "per tre
quarti ariano", che pure sarà condotto al suicidio dal disagio
psichico causato dal passato che ritorna. La "memoria
involontaria" si è trasformata in malattia autodistruttiva.
Il sottotitolo di Gli anelli di Saturno (Die Ringe
des Saturn, (1995, trad. it. a cura di G. Rovagnati,
Bompiani, 1996), "un pellegrinaggio inglese", ribadisce la
tensione che spinge il malinconico al cammino, al movimento
perpetuo. Tensione che viene paradossalmente affermata nella
scena con la quale il libro si apre: il narratore è costretto in
ospedale da una quasi totale immobilità dovuta all'"orrore
paralizzante" provato di fronte alle tracce della distruzione,
visibili anche in un paesaggio così scabro come quello del
Suffolk. Nel libro tutto rimanda a una concezione della storia
dell'umanità come travolgente processo distruttivo e
autodistruttivo; ogni dettaglio colto dallo sguardo vivisettore
di Sebald rimanda a questa realtà di rovine, verso la quale il
narratore si volta come l'angelo benjaminiano.
In Austerlitz (2001, in corso di traduzione) viene
riproposta l'idea della storia che distrugge l'individuo,
concentrandosi però su un personaggio solo, Jacques Austerlitz,
che racconta la sua vita in lunghi monologhi raccolti dal
narratore, aiutando in qualche modo il protagonista a ricomporre
la propria identità. Quasi sessantenne, Austerlitz riesce
finalmente a scoprire il luogo in cui è nato, Praga, e ad avere
notizie della sua famiglia, ricostruendo la sua prima infanzia,
fino a quel punto a lui del tutto sconosciuta. Dopo alcuni anni
sereni, nell'ansia per l'arrivo dei tedeschi sua madre lo aveva
caricato su un treno diretto in Inghilterra. Lei morirà poi a
Theresienstadt, a causa delle sue origini ebraiche, il padre
fuggirà a Parigi: e alla fine del libro Austerlitz lascia al
narratore i suoi appunti, dicendo che parte per cercarlo. Il
libro è percorso da un fortissimo senso del lutto; e la
condizione psichica del protagonista è vissuta come continua
dislocazione in un altrove indefinito e doloroso, che trova una
sua precisa metafora nell'architettura evocata continuamente nel
testo: dalle stazioni ai fortini-lager come Breendonk o
Theresienstadt. Qui la "Festung", la fortezza, rimanda
però all'esatto contrario di "fest", cioè solido: in
questo come negli altri testi tutto è labile, dolorosamente
sfuggente e sempre sul margine fra il mondo dei vivi e quello dei
morti.