America,
la secessione
dei vincenti
" Alcuni anni fa avevo un lavoro che mi consumava. Non che
fosse una vera e propria dipendenza: la dipendenza fa pensare ad
un attaccamento irrazionale, leggermente masochistico, coatto. Il
problema era che amavo il mio lavoro e non ne avevo mai
abbastanza. Essere un membro del gabinetto del presidente era
l'impiego migliore che avessi mai avuto. La mattina non vedevo
l'ora di arrivare in ufficio, la sera non volevo mai andarmene. E
anche quando ero a casa, parte della mia mente restava al
lavoro". Inizia così il saggio di Robert B. Reich, notissimo
economista liberal statunitense, intitolato non a caso
L'infelicità del successo (Fazi editore). Sì, perché
Reich il successo lo ha conosciuto da vicino, come docente a
Harvard, collaborando con tre amministrazioni presidenziali,
scrivendo per la stampa più nota al mondo (NewYorker,
NY Times, Washington Post, Wall Strett
Journal), fondando la rivista American prospect. Ma perché la questione si pone con maggior forza oggi? Perché i fatti gravi accaduti in Usa rimettono in
discussione la crisi della comunità. Oggi la comunità torna
protagonista. Perché è accaduta una cosa importante, e cioè gli
americani sono tornati ad interrogarsi sulla qualità della loro
vita. E dunque a ristabilire e a riscrivere le priorità,
ripensando all'importanza di prendersi cura di sé. Eppure tutte le tendenze - soprattutto per ciò che riguarda il
mondo del lavoro - non fanno certo ben sperare: flessibilità,
super-lavoro, lavoro nero, sfruttamento, precariato... E' vero, però il pendolo della storia potrebbe tornare a
volgere dall'altra parte. All'inizio del secolo ci siamo opposti
a cose ritenute fino a quel momento normali: la quantità di ore
di lavoro, il lavoro minorile, la mancanza di tutele sindacali e,
più in generale, dei diritti dei lavoratori. E quando queste
problematiche poste all'inizio da pochi, diventarono di interesse
collettivo, si imposero. Oggi sembra di tornare a quei tempi con un mercato che richiede
servizi o prodotti e un mondo del lavoro affannato a soddisfare
le richieste. E' l'altra faccia della medaglia dell'era delle
opportunità dove ogni desiderio può essere soddisfatto. E questo
grazie alle nuove tecnologie. Ma è la vita che vogliamo fare? Pensa che si possano rimettere in discussione le dinamiche
attuali? Sappiamo per certo che la frenesia può o non può portare
ad una maggiore ricchezza, mentre sicuramente la maggiore
ricchezza porterà con sé maggiore frenesia. E tutti i
ragionamenti che stiamo facendo dall'11 di settembre in poi mi
fanno ben sperare. Siamo di fronte a quella che io chiamo
nuova solidarietà, una solidarietà molto forte che torna
a mettere al centro il concetto di comunità, o di famiglia, due
questioni estremamente importanti in Usa. E questo porterà a nuovi diritti? E' una domanda difficile, ma io sono ottimista. Perché gli
americani sono diventati più sensibili. La recessione di questo
autunno sta colpendo tutti e sta colpendo soprattutto le fasce
più deboli. La nuova solidarietà potrà portare proprio
ad un meccanismo simile a quello a cui facevamo cenno prima,
innescatosi alla fine dell'800. Contro di lei ci sono personaggi come il guru dell'economia Tom
Peters che sostiene che, "nell'etica emergente è necessario fare
della tua personalità un bene commerciabile". La crisi economica ha svegliato l'America. Il capitalismo
crudele e individualistico degli anni '90 è sepolto sotto le
macerie delle Twin Towers, perché proprio da questa tragedia può
nascere la risposta alla fortissima mobilità, ad una
disuguaglianza che gli Usa non hanno tollerato mai a questi
livelli, ad una caduta libera della quantità e della qualità del
tempo privato, divorato dalle tecnologie pervasive che ci portano
il lavoro ovunque siamo. Per questo, così come accadde quando fu
smantellato il sistema del lavoro che permise la I e la II
rivoluzione industriale, così oggi possiamo scegliere. D'altra
parte quel sistema è durato poco più di un secolo e mezzo, dunque
poco. L'importante è capire che la nostra vita non si identifica
con il nostro patrimonio e che la società civile è una cosa
diversa dal prodotto interno lordo. Solo questo porterà ad un
nuovo equilibrio sociale che permetta all'essere umano di non
essere più solo uno strumento di produzione e di consumo.
Un'intervista
con Robert Reich,
docente
di economia politica a Harvard
e autore del libro "L'infelicità
del successo"
della Fazi editore
RAFFAELE PALUMBO -
GIULIANA CHAMEDES
Ma ha conosciuto da vicino anche l'infelicità (del successo,
appunto), così che nel bel mezzo del suo lavoro, ha piantato in
asso Bill Clinton sollevando un vespaio di polemiche. Come
segretario del dipartimento del Lavoro durante l'ultima
amministrazione Clinton aveva lavorato alla sicurezza sui luoghi
di lavoro, condotto una sorta di crociata nazionale per
l'abolizione delle fabbriche con sfruttamento e lavoro nero,
combattuto il lavoro minorile e innalzato - per la prima volta
dal 1981 - il minimo salariale. Poi, all'improvviso, le
dimissioni, per "motivazioni personali". Qualcuno giudicò la sua
scelta folle: un uomo all'apice della sua carriera che manda
tutto all'aria per stare un po' di più con i figli. Per altri è
invece diventato il guru del "calmiamoci un attimo e godiamoci la
vita". Del downshift, scalare la marcia.
Ora queste riflessioni sono concentrate nel saggio - divenuto un
cult in Usa - che è stato definito l'attacco più
radicale e meglio argomentato all'American way of life. Anzi, di
più: all'American way of life ai tempi della new economy. La
teoria di Reich parte proprio dal suo caso personale ("cominciavo
a perdere contatti persino con me stesso", scrive) e arriva a
investire non una ristretta cerchia di super-ricchi, bensì
l'intera società. Nel caso del super-manager la questione è solo
più evidente. Reich sostiene infatti che proprio per coloro che
guadagnano di più - i ceti più alti - la forbice tra benessere
economico e benessere personale, familiare, sociale e di comunità
si allarga sempre di più. E allora, per usare le sue stesse
parole, "se ciò che facciamo per soldi ci rende più ricchi,
perché la nostra vita personale si fa sempre più misera?".
Perché, racconta Reich, "l'era delle opportunità rende le nostre
vite sempre più frenetiche, meno sicure, economicamente più
divergenti, socialmente più stratificate". Ma "il libero mercato
non esiste in natura, è un artefatto umano. E le tendenze attuali
sono forti, ma non irreversibili o quantomeno non
immodificabili". Ora la questione è più complessa. Prima dell'11
settembre (eleven-nine, detto alla newyorkese), il saggio di
Reich era un appassionante spunto per un dibattito
teorico-accademico marginale e periferico. Oggi le questioni
poste da Reich "diventano più emergenti", come lui stesso ci ha
raccontato da Washington, dove lavora (facendo il pendolare con
Boston) non più 15 ore al giorno, bensì 9 (che comunque non è
male per uno che sostiene che "bisogna darsi una
calmata").