America, la secessione dei vincenti

RAFFAELE PALUMBO - GIULIANA CHAMEDES

America, la secessione dei vincenti
Un'intervista con Robert Reich, docente di economia politica a Harvard e autore del libro "L'infelicità del successo" della Fazi editore
RAFFAELE PALUMBO - GIULIANA CHAMEDES


" Alcuni anni fa avevo un lavoro che mi consumava. Non che fosse una vera e propria dipendenza: la dipendenza fa pensare ad un attaccamento irrazionale, leggermente masochistico, coatto. Il problema era che amavo il mio lavoro e non ne avevo mai abbastanza. Essere un membro del gabinetto del presidente era l'impiego migliore che avessi mai avuto. La mattina non vedevo l'ora di arrivare in ufficio, la sera non volevo mai andarmene. E anche quando ero a casa, parte della mia mente restava al lavoro". Inizia così il saggio di Robert B. Reich, notissimo economista liberal statunitense, intitolato non a caso L'infelicità del successo (Fazi editore). Sì, perché Reich il successo lo ha conosciuto da vicino, come docente a Harvard, collaborando con tre amministrazioni presidenziali, scrivendo per la stampa più nota al mondo (NewYorker, NY Times, Washington Post, Wall Strett Journal), fondando la rivista American prospect.
Ma ha conosciuto da vicino anche l'infelicità (del successo, appunto), così che nel bel mezzo del suo lavoro, ha piantato in asso Bill Clinton sollevando un vespaio di polemiche. Come segretario del dipartimento del Lavoro durante l'ultima amministrazione Clinton aveva lavorato alla sicurezza sui luoghi di lavoro, condotto una sorta di crociata nazionale per l'abolizione delle fabbriche con sfruttamento e lavoro nero, combattuto il lavoro minorile e innalzato - per la prima volta dal 1981 - il minimo salariale. Poi, all'improvviso, le dimissioni, per "motivazioni personali". Qualcuno giudicò la sua scelta folle: un uomo all'apice della sua carriera che manda tutto all'aria per stare un po' di più con i figli. Per altri è invece diventato il guru del "calmiamoci un attimo e godiamoci la vita". Del downshift, scalare la marcia.
Ora queste riflessioni sono concentrate nel saggio - divenuto un cult in Usa - che è stato definito l'attacco più radicale e meglio argomentato all'American way of life. Anzi, di più: all'American way of life ai tempi della new economy. La teoria di Reich parte proprio dal suo caso personale ("cominciavo a perdere contatti persino con me stesso", scrive) e arriva a investire non una ristretta cerchia di super-ricchi, bensì l'intera società. Nel caso del super-manager la questione è solo più evidente. Reich sostiene infatti che proprio per coloro che guadagnano di più - i ceti più alti - la forbice tra benessere economico e benessere personale, familiare, sociale e di comunità si allarga sempre di più. E allora, per usare le sue stesse parole, "se ciò che facciamo per soldi ci rende più ricchi, perché la nostra vita personale si fa sempre più misera?". Perché, racconta Reich, "l'era delle opportunità rende le nostre vite sempre più frenetiche, meno sicure, economicamente più divergenti, socialmente più stratificate". Ma "il libero mercato non esiste in natura, è un artefatto umano. E le tendenze attuali sono forti, ma non irreversibili o quantomeno non immodificabili". Ora la questione è più complessa. Prima dell'11 settembre (eleven-nine, detto alla newyorkese), il saggio di Reich era un appassionante spunto per un dibattito teorico-accademico marginale e periferico. Oggi le questioni poste da Reich "diventano più emergenti", come lui stesso ci ha raccontato da Washington, dove lavora (facendo il pendolare con Boston) non più 15 ore al giorno, bensì 9 (che comunque non è male per uno che sostiene che "bisogna darsi una calmata").

Ma perché la questione si pone con maggior forza oggi?

Perché i fatti gravi accaduti in Usa rimettono in discussione la crisi della comunità. Oggi la comunità torna protagonista. Perché è accaduta una cosa importante, e cioè gli americani sono tornati ad interrogarsi sulla qualità della loro vita. E dunque a ristabilire e a riscrivere le priorità, ripensando all'importanza di prendersi cura di sé.

Eppure tutte le tendenze - soprattutto per ciò che riguarda il mondo del lavoro - non fanno certo ben sperare: flessibilità, super-lavoro, lavoro nero, sfruttamento, precariato...

E' vero, però il pendolo della storia potrebbe tornare a volgere dall'altra parte. All'inizio del secolo ci siamo opposti a cose ritenute fino a quel momento normali: la quantità di ore di lavoro, il lavoro minorile, la mancanza di tutele sindacali e, più in generale, dei diritti dei lavoratori. E quando queste problematiche poste all'inizio da pochi, diventarono di interesse collettivo, si imposero.

Oggi sembra di tornare a quei tempi con un mercato che richiede servizi o prodotti e un mondo del lavoro affannato a soddisfare le richieste.

E' l'altra faccia della medaglia dell'era delle opportunità dove ogni desiderio può essere soddisfatto. E questo grazie alle nuove tecnologie. Ma è la vita che vogliamo fare?

Pensa che si possano rimettere in discussione le dinamiche attuali?

Sappiamo per certo che la frenesia può o non può portare ad una maggiore ricchezza, mentre sicuramente la maggiore ricchezza porterà con sé maggiore frenesia. E tutti i ragionamenti che stiamo facendo dall'11 di settembre in poi mi fanno ben sperare. Siamo di fronte a quella che io chiamo nuova solidarietà, una solidarietà molto forte che torna a mettere al centro il concetto di comunità, o di famiglia, due questioni estremamente importanti in Usa.

E questo porterà a nuovi diritti?

E' una domanda difficile, ma io sono ottimista. Perché gli americani sono diventati più sensibili. La recessione di questo autunno sta colpendo tutti e sta colpendo soprattutto le fasce più deboli. La nuova solidarietà potrà portare proprio ad un meccanismo simile a quello a cui facevamo cenno prima, innescatosi alla fine dell'800.

Contro di lei ci sono personaggi come il guru dell'economia Tom Peters che sostiene che, "nell'etica emergente è necessario fare della tua personalità un bene commerciabile".

La crisi economica ha svegliato l'America. Il capitalismo crudele e individualistico degli anni '90 è sepolto sotto le macerie delle Twin Towers, perché proprio da questa tragedia può nascere la risposta alla fortissima mobilità, ad una disuguaglianza che gli Usa non hanno tollerato mai a questi livelli, ad una caduta libera della quantità e della qualità del tempo privato, divorato dalle tecnologie pervasive che ci portano il lavoro ovunque siamo. Per questo, così come accadde quando fu smantellato il sistema del lavoro che permise la I e la II rivoluzione industriale, così oggi possiamo scegliere. D'altra parte quel sistema è durato poco più di un secolo e mezzo, dunque poco. L'importante è capire che la nostra vita non si identifica con il nostro patrimonio e che la società civile è una cosa diversa dal prodotto interno lordo. Solo questo porterà ad un nuovo equilibrio sociale che permetta all'essere umano di non essere più solo uno strumento di produzione e di consumo.

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