Il pugno
di velluto
Il Parken stadium di Copenaghen registra il tutto esaurito
per il ritorno sul ring di Mike Tyson, sabato notte. Lui, 35
anni, si presenta appesantito, 108 kg. Sei chili in più rispetto
all'ultima volta che condizionano la vittoria su Brian Nielsen,
decretata all'inizio del 7mo round per ko tecnico. Manca lo
scatto, la capacità di costruire l'azione sull'immediatezza,
falla la cifra distintiva del suo boxare: schivare e partire
proprio dalla difesa per inventare l'attacco fulminante. E' un
match legato, dal ritmo in calare, con l'avversario buon
incassatore che assorbe i colpi al tronco, foderato di tessuto
adiposo. Nielsen cade al terzo round, si rialza poi finisce il
match sullo sgabello, all'angolo, con un occhio spento da un
ecchimosi. Tyson, in uno degli incontri più lunghi della sua
carriera, non gira, si muove poco, il suo gesto sorprendente non
guizza come un tempo.
Mike Tyson vince la sfida
a Copenaghen contro Brian Nielsen. Ko tecnico alla settima
ripresa, in un match senza clamori. Nel futuro dell'ex campione
c'è l'Europa in attesa di Lewis-Rahman
GIULIA SBARIGIA
Si porta a casa un'altra vittoria, in una sfida più simile a un
allenamento con uno sparring partner, e 20 miliardi, di cui
devolverà una parte ai figli dei pompieri vittime dell'attentato
alle Torri gemelle. Eccolo Tyson dopo un anno di assenza dalle
scene, cioè un anno di astinenza dalla boxe ufficile, perché poi
tra un incontro e l'altro c'è sempre stato modo di parlare di
lui. Del suo avversario invece si sapeva poco e niente. Brian
Nielsen, 36 anni, un danese di 118 kilogrammi per 191 cm di
altezza, cioè una montagna in carne e ossa, più carne che massa
muscolare almeno in apparenza. Solo alla vigilia dell'incontro il
profilo agonistico di Nielsen si è fatto più concreto e allora è
spuntato dall'anonimato il suo palmarés quasi tutto guadagnato
giocando in casa. Un record di 62 vittorie, 43 per ko, e una sola
sconfitta, il titolo di campione del mondo sotto la sigla Ibc.
Dati essenziali per ammantare lo sfidante di Iron Mike di un po'
di credibilità prima del gong.
L'incontro, alla distanza sulle dieci riprese, non è preceduto da
una qualche condanna che Tyson si porta dietro né seguito da
scandali e varie amenità. Non ci sono orecchie da mordere con
rabbia come contro Evander Holyfield, anche se il pubblico danese
si traveste da dottor Spok calzando padiglioni auricolari di
plastica. Non ci sono colpi scorretti sferrati dopo il suono del
gong, che costarono a Tyson la cacciata dal paradiso di Las Vegas
pur rimanendo il dubbio che l'avversario di allora, Orlin Norris,
si fosse accasciato al tappeto per un colpo teatrale più che per
il gancio alla mascella. Non ci sono arbitri vittime della furia
ceca, come fu per John Coyle che tentava di fermare il match
contro Lou Savarese. Anzi il direttore di gara, Steve Smooger,
alla fine del match di Copenaghen loda il fair play di Mike. Non
si parla di antidepressivi, dell'ultracelebrato Prozac, né di
cura del litio. Niente bombe chimiche per adolescenti irrequieti
a velare di dubbio la sopita aggressività di Tyson. E sembra che
questa volta il gigante di Brooklyn non si sia fumato neanche una
sigaretta farcita alla marijuana, thc che gli costò multa e
sospensione per tre mesi al termine dell'incontro con Golota. E
non bastano i tatuaggi dei due sfidanti a montare una qualche
possibile storia da raccontare oltre il quadrato. Se dal bicipite
di Nielsen spunta la sindone di Cristo, da quello di Tyson,
scortato in Danimarca da Muhammad Siddeq - il leader dei
musulmani di Indianapolis che accompagnò il pugile alla
conversione all'Islam negli anni di carcere - ci guarda invece
Mao.
L'occasione di spostare il piano dello scontro si presenta
ghiotta, ma neanche i più spregiudicati intravedono in Tyson il
nemico numero uno. L'America ora ha già il suo nemico contro cui
scagliarsi e cercarlo in un mondo dove la violenza agonistica
viaggia su limiti incerti, e quindi facilmente
strumentalizzabili, creerebbe più disagio che clamore.
Il terribile Tyson è meno terribile non perché ha vinto in sei
riprese soft, ma perché neanche lui in questo momento può
sostenere il monumento al terrore che gli è stato costruito
addosso per una vita. E Tyson non presta il fianco, le sue
dichiarazioni durante la cerimonia del peso sono pacate, ma
lucide. Incalzato dai cronisti sulla tragedia di New York, lui,
musulamno, risponde fermamente: "Non credo sia giusto definire
un'intera religione per il comportamento di una sola persona o di
un gruppo di persone. McVeigh era un cristiano e nessuno ha
bandito il cristianesimo".
Poi si rivela alla folla dell'arena e alle telecamere della
Showtime: niente vestaglia di raso lucido, niente scritte "Fear
and fire" (paura e fuoco), ma solo la felpa con su le iniziali di
New York intrecciate sul petto e non c'è più altro da aggiungere,
solo che lui probabilmente resterà in Europa. Attenderà qui,
lontano dagli Usa la rivincita tra Lewis e Rahman per il mondiale
Wbc-Ibf.