Noi, il Marocco e la guerra

DANIELA MEROLLA - CRISTIANA PATERNO'

Noi, il Marocco e la guerra
Pochi giorni dopo l'attacco alle Torri Gemelle, viaggio a Rabat, Casablanca e Agadir, nelle terre berbere e pluriculturali del Maghreb arabo, piuttosto scettico sulla morale dell'occidente DANIELA MEROLLA - CRISTIANA PATERNO'


Casablanca, Casà, come la chiamano, alla francese. In una giornata incredibilmente ventosa sulla Place des Nations Unies. Siamo in un bar occidentale, con grandi vetrate che danno su questa piazza irregolare, non bella ma sempre molto affollata, dominata dall'aggressivo e incongruo Hyatt Hotel dove camerieri vestiti come Bogart, con cappello e impermeabile, servono drink ai pochi turisti. I mendicanti passano avanti e indietro: storpi, ciechi e donne molto vecchie si accontentano di due dihram. Ai tavoli single in attesa, oppure gruppi - di donne o di uomini - che fanno conversazione. Società della separazione.
Odori forti e insoliti. La menta che vendono in grandi balle di un verde vivo o secca, in piccoli sacchetti, e che poi dà l'odore al tè, bevanda nazionale versata dai bricchi d'argento facendo scintillare il liquido nell'aria. La carne, di montone o di pollo, cucinata con spezie forti, il coriandolo e il cumino, tagliata a pezzi, appoggiata su un letto di prezzemolo nei mercati. La semola del cous cous dal color zafferano, ricoperta di cipolle, uvetta, peperoni. Nei mercati dove nessuno compra a cuor leggero tutto fa mostra di sé in bell'ordine. Difficile entrare in comunicazione con questo paese che pare chiuso, isolato, un po' spaventato. Eppure a Casablanca e Rabat c'è l'orgoglio delle grandi città del sud Europa affacciate sul mare: banche, assicurazioni, avvocati e medici ovunque, perché le professioni liberali danno opportunità anche qui...
Qualche preoccupazione ce l'avevamo, arrivando in Marocco appena una settimana dopo le Twin Towers: europee sparute tra viaggiatori obbligati al volo, per affari o meglio per emigrazione. Ma Casablanca è città di business, una Milano d'Africa dove incontri mauritani e senegalesi ovunque. Eppoi però i mendicanti, le voragini che si aprono nell'asfalto dei marciapiedi, le donne velate o avvolte nei lunghi caftani, come gli uomini del resto, gli sciuscià, i venditori di giornali che mettono la mercanzia per terra e tutti la leggono, noi comprese. Da lì apprendiamo giorno dopo giorno l'evoluzione della crisi internazionale: la gaffe di Berlusconi, definita "indecente" dal governativo Le Matin, le mosse di Bush, le contromosse dei talebani. E' un osservatorio inusuale eppure i quotidiani marocchini, almeno francofoni, fanno mostra di moderazione. Però la Gazette, settimanale che si rivolge a un pubblico di imprenditori, e anche di esportatori stranieri, titola senza perifrasi: "L'America prende il mondo in ostaggio, Bush jr. annuncia una guerra multiforme. Gli Usa intendono servirsi della nuova crociata per prendere piede in Asia centrale".
I marocchini che incontriamo durante il viaggio, anche intellettuali, soprattutto berberi, ci chiedono spiegazioni sulla presunta superiorità proclamata dal nostro premier. Scontiamo il fatto di essere italiane, circostanza che, per il resto, non penalizza. Non c'è ombra di razzismo verso di noi. Tutti trovano che colpire i civili, sia negli attentati che nei bombardamenti sia inaccettabile. Tutti si oppongono alla politica estera e militare americana. I bombardamenti sono visti come pura manifestazione di forza su una popolazione giù allo stremo. L'America e gli occidentali in genere - ci dicono in tanti - non si occupano delle ingiustizie compiute contro i palestinesi o peggio dei morti musulmani. Anche sugli attentati si sollevano dubbi. Molti qui pensano che siano azioni troppo raffinate per non esserci di mezzo qualche intelligence (Mossad, Kgb addirittura o forze interne Usa antimusulmane).
Ahmed, 26 anni, ha una posizione meno sfumata: gli atti terroristici sono la risposta diretta alla politica Usa, "il fine giustifica i mezzi", la lotta al terrorismo copre un attacco ai paesi musulmani, gli attentati sono la sola reazione efficace all'ingiustizia. Ahmed ripete tesi all'irachena: gli Usa si proclamano difensori della democrazia, ma ogni volta hanno fatto la guerra - in Vietnam, in Iraq - per difendere i propri interessi e basta. Insiste sulla questione palestinese, dice che può essere risolta. Come? "Lo Stato palestinese è il 22% del territorio, almeno questo dovrebbe essergli restituito. Un primo passo, tutta la terra deve tornare ai palestinesi". Gli israeliani? "Non è casa loro, l'Europa si è liberata di un problema ma l'ha rifilato ai musulmani che prima vivevano tranquillamente insieme agli ebrei". Ahmed semplifica la storia dell'Islam. Ma la presenza di altre comunità religiose, anche se in posizione subordinata, è stata in effetti una costante degli imperi islamici del periodo d'oro (VII-XV secolo), come dell'impero ottomano in seguito.
Rachid Ben Bouchta, un ingegnere politicamente molto attivo, cinquantenne, originario di Agadir, ci ha fatto una lezione sulla storia d'Egitto, intere dinastie di faraoni berberi, i condottieri romani che venivano dall'Africa e tutto per ricordarci della mescolanza delle culture in Nordafrica e nel mediterraneo.
Nelle associazioni culturali della regione il discorso sui palestinesi è ricorrente. Ma Idir Teskouk, insegnante, non vuole neppure discutere la questione palestinese se prima non ci si occupa dei diritti degli imazighen ("gli uomini liberi", i berberi) che non sono rispettati in patria. E' una contraddizione del Marocco e dei paesi arabi: si difendono i diritti dei palestinesi ma non quelli delle minoranze interne. Il nostro abbigliamento "modesto" - gonne lunghe e spalle coperte - ci rende quasi invisibili, ma è un'arma a doppio taglio. Il corpo della donna è sacro, come dice il Corano, ma è altrettanto vero che il corpo della donna è un non-valore se non c'è un maschio a riconoscerlo e detenerne la proprietà. Potere sociale neanche a parlarne. E non siamo nell'Afganistan del burka. Hassan El Houas, che lavora nell'amministrazione di Agadir e vive in un quartiere popolare, ha già accettato in prospettiva i limiti imposti dalla famiglia allargata; la madre vuole per lui una moglie che sia donna di casa e aiuto per la sua vecchiaia: una donna che non abbia studiato, che non sogni di lavorare. "Una moglie che sappia unire la famiglia, restare in pace con la suocera, creare un'atmosfera serena in casa, tirar su bene i figli, ha il suo valore anche se non puoi condividere idee, discorsi, interessi intellettuali", dice. E conclude: "E' un buon matrimonio alla marocchina. Che significa l'amore?".
Già, e tuttavia anche per lui non è semplice né indiscutibile. Hassan aggiunge che si può essere innamorati senza per forza volersi sposare; mentre Alì Akellach, musicista, ha composto canzoni e canzoni per una donna che non ha mai sposato. In un mondo così accuratamente separato tra donne e uomini, ci sono poi tanti momenti di incontri più che ravvicinati; prendi i taxi collettivo o gli autobus. I taxi in particolare: quando ci si mette in 6 in 4 posti, due nel posto davanti e quattro dietro, per esempio. Se si resta più o meno fermi e nei termini della più alta educazione, il contatto fisico è inevitabile e intimo: lato, spalla, gamba, si sente il cuore pulsare, i piccoli movimenti irriflessi, il corpo attraverso i tessuti. Lo sconosciuto compagno di viaggio lo sa e chiede: "etez-vous à l'aise?". Spesso gli uomini hanno occhi tristi, perduti. Quasi tutti sognano un altrove, come nel film di Téchiné, Loin, girato a nord, a Tangeri, che solo un braccio di mare separa dalla Spagna. L'Italia sembra simile e amichevole, per questo Berlusconi li ha sconcertati tanto. Il nome del presidente risuonava dalla radio araba di un petit taxi dalle poltrone foderate di inverosimile pelliccia. Andavamo a Rabat. Abbiamo incontrato due intellettuali militanti berberi, quel giorno: Mohammed Doukkali, un riservato giornalista che si occupa di teatro alla radio e che ha una lunga storia di impegno per la difesa della cultura e della lingua; quindi Hassan Rachid, avvocato, 50 anni: scrittore, prigioniero politico, autore del primo romanzo scritto in tamazight (la lingua berbera). Anche per loro la differenza culturale conta più dell'appartenenza al mondo islamico. "L'Islam è la pace", mi ha detto Alì, poeta e cantante famoso. Comunque ce l'hanno ripetuto spesso. L'Islam è anche guerra ma la guerra sembra tanto lontana, quaggiù, in mezzo a nemici endemici non meno pericolosi per la sopravvivenza. Povertà, enormi disparità sociali, questione berbera, apartheid sessuale. Alle 6.30 del mattino, il taxi per l'aereoporto, una vecchia Mercedes con i sedili di pelle, sfreccia per la periferia di Casablanca. Scopri così quartieri eleganti, ville circondate da mura e giardini. Lì accanto uomini accampati ai margini della conurbazione escono dalle loro tende per iniziare la giornata. C'è chi fa jogging in tuta Nike e chi trascina verso il mercato più vicino un pesante carretto tirato a mano pieno di meloni. Habous è una zona anni '20, case di due o tre piani bianche con strade strette e alberi, e un mercato enorme che si snoda per senti
eri interni che sembrano infiniti e con tutte le mercanzie di verdure e spezie, montagne di gialli, rossi, ocra, marroni, verde e gente dappertutto, forni con pasticceria buonissima, vita senza sosta e musica senza sosta.
A Marrakesh il re ha inaugurato proprio pochi giorni fa il primo festival del cinema - da un'idea di Gérard Depardieu - con una cena di gala in onore di Daniel Toscan du Plantier, Jane Birkin, Claude Lelouch e gli egiziani Youssef Chahine e Omar Sharif: "quando l'Islam e l'Occidente dialogano", riassumeva un cronista entusiasta. Quella mattina, il principe ereditario aveva concluso un torneo mondiale di tiro a volo consegnando premi e medaglie a atleti anche italiani... quando l' Occidente e l'Islam dialogano.
Tiznit, a sud di Agadir. Finalmente si sente il Sud, fuori dalla periferia del mondo, fuori dalla spazzatura, dalle case di cemento stile arabo internazionale, stile nullo; finalmente dossi di terra arida, rossa e gialla, sabbia con arbusti bassi. Lontano le montagne, l'orizzonte che si muove, pulviscolo nell'aria. Spazi e spazi e spazi: bellezza mangiata e tagliata dalle nuove città che appaiono all'improvviso, che si circondano di rifiuti. Come è possibile tanta potenza della terra e tanta assenza di senso estetico nelle nuove costruzioni? Le costruzioni bianche e semplici, povere, seminascoste nel loro ambiente e le città maestose come Meknes o Marrakesh lasciano posto al cemento, a villini per i fortunati, e all'affollamento di materiali: muri sgretolati, decadenza, periferie abbandonate senza alcun centro. Parlando con la gente sembra che non si distingua bello da ricco; bello è ciò che è ricco, che manifesta il lusso. Le medine - città vecchia - sono solo povere e quindi brutte, non si guarda all'organicità, alle forme, ai materiali, alla storia delle case e dell'architettura. Tiznit ha un centro storico con mura rosse circondato e trafitto dal finto Oriente degli hotel che si mescola al vero mediocre dell'architettura impoverita, l'architettura internazionale anni '70.
Il cameriere della prima colazione, Abdel, ci chiede di scambiarci gli indirizzi: spera di poter venire in Italia. Come molti. Un paese costretto a produrre possibili emigranti che troveranno frontiere sempre più chiuse.

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