David Sylvian, voce fatale

E VALERIO CORZANI - ROMA

David Sylvian, voce fatale
Tutto esaurito per l'ex leader dei Japan. Tra suoni soffusi e ricercati
E VALERIO CORZANI - ROMA

'finita con David Sylvian in posa da crooner, assorbito dalle atmosfere del lussuoso e torbido night che la versione glamour di Wanderlust aveva inesorabilmente evocato. La data romana dell'ex Japan ha così sedotto, con quest'ultimo fatale coup de theatre, il pubblico di un Palacisalfa tutto esaurito. Un pubblico ben disposto e consenziente che aveva deciso di adattarsi preventivamente alle asperità acustiche di un luogo sbagliato per un concerto come quello di Sylvian. Teatrale e ricercato, soffuso e aristocratico, metodico e rappreso: il palinsesto di questa tournée metteva in gioco gli ingranaggi implacabili della musica del Sylvian della maturità, che è musica non facile eppure ammaliante, non emotiva eppure piena di pulsioni, non chiassosa eppure capace di toccare i fili più scoperti delle fibrillazioni ritmiche, degli assoli strumentali, dell'impasto sonoro.
Al fianco di quello che qualcuno definì (con grande dispetto dell'interessato) "l'uomo più bello del mondo", un manipolo di fidi scudieri: Steve Jansen, vecchio compagno d'armi a manovrare batteria e percussioni con una predisposizione votata sempre alla sperimentazione timbrica, Matt Cooper alle tastiere, al pianoforte e ai loop, Tim Young alle chitarre, Keith Lowe al basso e al contrabbasso. Il "collettivo" Sylvian non aveva nessuna intenzione di perdere tempo né peraltro di affrettarsi. Sapeva di dover sciorinare una raccolta di splendide composizioni, molte delle quali già inserite nel disegno narrativo del doppio greatest hits cui si ricollega l'insegna del tour "Everything and Nothing". Attorno ad un capobanda spesso seduto, spesso preso dalle quiete contorsioni di una chitarra acustica, si sono disposti i quattro partner strumentali mentre dietro, a sovrastare i toni e a dettare in anticipo le atmosfere, campeggiava uno schermo che si riempiva via via di forme colorate e giochi psichedelici, i quali, contorcendosi anche loro con la stessa svogliata frenesia "partecipavano" il pubblico in una sorta di ossessione estetica, molto seducente. Scent of Magnolia, Black Water, God Man hanno funzionato da perfetti apripista per il lancio del primo vero zenith emozionale della serata, I Surrender, sorta di perfetta canzone pop "modale" se mai ce n'è stata una. Con il rock-blues stralunato di Jean the Birdman il set prendeva il suo vento più muscolare, subito trattenuto, come in uno stretching al contrario, per planare sulle dune flessuose di Midnight Sun, Boy with the Gun, Orpheus, Waterfront.
Sul groove tentacolare di Heartbeat, Sylvian si è rialzato in piedi e ha sfoderato la tonalità più scura della sua voce, un timbro cupo e solo lievemente increspato che insieme alla pasta legnosa del contrabbasso finiva purtroppo per perdersi in quel gigantesco stanzone da mercato che è il Palacisalfa. Dopodiché le stanze della musica di Sylvian hanno ricominciato a far prevalere le proprie preziose mura.
Il loop noise di Linoleum e Sixteen Summers, sorta di haiku sonoro, di minimale affresco, di microscopico vaso di pandora fonico, poi Ghost, forse la ballata dall'impianto più tradizionale, Pollen Path, con un intro hard-free sorprendente e cattiva, Cover Me with Flower, Zero Landmine... fino alle vette della collaborazione con Sakamoto, Forbidden Colours, e al gorgo orientale di Krishna Blue, ancora una volta tratto da Dead Bees on a Cake, l'album che secondo lo stesso Sylvian "ha centrato il bersaglio con la maggior precisione". Con lo shuffle notturno di Nightporter e lo scat vocale dai toni indo-orientali di Bhajan, primi due bis in scaletta, si è avuta finalmente la sensazione di avere a che fare non solo con una straordinaria sorgente di atmosfere ed emozioni ad orologeria, ma anche con un laboratorio d'improvvisazione.
E' stato solo un momento, la momentanea briglia sciolta di un concerto che funziona talmente bene da non aver bisogno neppure delle sferzate di un solista o delle sorprese di un arrangiamento stravolto dalla versione live. Sylvian ha ripreso il suo scettro d'impagabile tiranno dell'emozione congelata, si è travestito da crooner ed ha dato appuntamento a tutti per il congedo dall'Italia del suo tour autunnale: stasera al Palafenice di Venezia, un'altra città d'arte che spedisce un set rarefatto in un palaqualcosa, un altro concerto di Sylvian che manca del suo indispensabile teatro.

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