Penso dunque calcolo, dunque sono

MASSIMO DE CAROLIS

Penso dunque calcolo, dunque sono
In "Filosofia e scienza cognitiva", di Diego Marconi per Laterza, il punto su una discussione che si svolge a colpi di esperimenti mentali, coinvolgendo tanto i sostenitori del programma cognitivista quanto i suoi critici
MASSIMO DE CAROLIS

In questi ultimi anni anche una cultura di tradizione umanistica come quella italiana ha registrato un crescente interesse per i risultati delle neuroscienze e, più in particolare, per le loro eventuali implicazioni filosofiche. Un interesse che si è spesso scontrato, però, con l'oggettiva difficoltà di coniugare assieme l'impianto filosofico continentale e i modelli di ricerca maturati, specie nel mondo anglosassone, a diretto contatto con le innovazioni tecnologiche. Diego Marconi è uno dei pochissimi ricercatori italiani a muoversi da anni con uguale competenza nei due campi, e questa doppia appartenenza ne fa l'autore ideale per un volumetto che, sia pure nelle ridotte dimensioni di un manuale informativo e di facile lettura, ha l'ambizione di mettere a fuoco il nocciolo filosofico delle ricerche contemporanee sui processi cognitivi. Un'impresa, questa pubblicata da Laterza con il titolo Filosofia e scienza cognitiva, che comporta almeno due difficoltà essenziali. C'è, in primo luogo, un problema di sintesi, visto che l'orizzonte del cognitivismo spazia dalla linguistica alla neuropsicologia o all'informatica, disegnando una mappa complessa in cui i tratti comuni sono più facilmente riconoscibili nello stile (ad esempio la predilezione per gli esperimenti mentali o per il cortocircuito fra dati sperimentali e problemi metafisici) che non nei contenuti e nelle tesi fondamentali. In secondo luogo, va superata una difficoltà di traduzione: si tratta cioè di trasporre gli aspetti decisivi di queste ricerche nei concetti della tradizione filosofica europea rispettando la ricchezza di entrambi i poli - evitando, in altre parole, di appiattire ogni cosa in contrapposizioni polemiche come quella tra cultura scientifica e cultura umanistica (o tra analitici e continentali), in cui ogni tradizione è ridotta a un blocco monolitico e ogni confronto o contaminazione costruttiva è resa di fatto impossibile. Vediamo brevemente come e perché, in questo caso, le due difficoltà siano state entrambe brillantemente risolte.

Innanzitutto, per quanto riguarda l'identità del suo oggetto, la proposta di Marconi è di considerare la scienza cognitiva non come una scienza a sé stante, ma come un programma di ricerca: quello cioè di considerare in genere ogni possibile processo cognitivo (dalla semplice percezione di un oggetto nello spazio fino alle più sofisticate prestazioni intellettuali) come qualcosa di simile a un calcolo, vale a dire come l'elaborazione di dati informativi in base a regole che possono essere scomposte e analizzate fino a tradursi in un insieme di procedimenti semplici (non più complessi cioè del sommare 1+1).
Si capisce così che a questo programma possano contribuire le discipline più diverse senza per questo fondersi in un'unica metascienza, ma è anche chiaro perché un posto d'onore spetti, in questo quadro, alle neuroscienze e all'intelligenza artificiale. Di un computer in effetti sappiamo che non può fare altro che applicare i procedimenti semplici in base ai quali è stato programmato. Qualunque cosa un calcolatore riesca a fare è quindi per ciò stesso descrivibile come calcolo, col risultato che ogni successo dell'ingegneria del software equivale a una conferma del programma cognitivista. D'altro canto, dato che l'unica macchina finora in grado di realizzare processi cognitivi di alto livello è, per quanto ne sappiamo, il cervello umano, è ovvio che lo studio delle forme effettive di funzionamento del cervello sarà un banco di prova decisivo per misurare sia la coerenza che l'utilità concreta del programma. Questa semplice descrizione basta peraltro già a spiegare il tratto forse più suggestivo e caratteristico della letteratura sul cognitivismo, vale a dire il frequente ricorso agli esperimenti mentali. L'ambizione del programma, infatti, è di valere per qualsiasi processo cognitivo, compresi quelli di ordine senziente (come il provare dolore o il commuoversi) o semantico (ad esempio comprendere una frase, una poesia o una teoria scientifica). Dal momento però che la scienza è (e resterà, probabilmente, ancora a lungo) priva di una precisa e completa descrizione di questi processi, il punto cruciale è di capire se esista un modo puramente logico di dimostrare o che qualunque processo di questo tipo è necessariamente riducibile a un calcolo o, viceversa, che alcuni necessariamente non lo sono (un po' come, a suo tempo, Gödel dimostrò la necessaria incompletezza di qualsiasi sistema formale). Partigiani e avversari del cognitivismo si sono sforzati così di raggiungere l'uno o l'altro risultato deducendolo da ipotesi ideali a metà strada fra l'enigma matematico e la fantascienza. A partire dalla famigerata macchina di Turing, ci troviamo così a fronteggiare i cervelli in vasca di Putnam, la stanza cinese di Searle o il rito immaginato da Block, in cui ogni singolo cittadino cinese è chiamato a mimare l'attività di un neurone in un cervello che, poniamo, reagisca a una scarica elettrica - proverà dolore il superorganismo che include l'intera popolazione cinese?
L'aspetto forse più interessante di questa discussione a colpi di esperimenti mentali è, appunto, che essa coinvolge a pari titolo tanto i sostenitori del programma cognitivista quanto i suoi critici. E' possibile cioè accettare il terreno di ricerca proposto dal cognitivismo proprio per criticarne o demolirne il programma - e, a guardar bene, è proprio questa l'impostazione di molti degli autori più illustri, da Putnam a Kripke, da Edelman a Chomsky. La discussione sui processi cognitivi non è insomma un unico coro armonioso, ma un campo di forti contrasti, e proprio questo permette di aprire un confronto costruttivo con lo scenario continentale. E' fuori dubbio, infatti, che la semplice equiparazione del pensiero al calcolo urti da noi contro una forte resistenza, che non è solo il retaggio dell'antica metafisica dello spirito ma trova anzi la sua espressione più coerente proprio negli autori che di quella metafisica hanno segnato il tracollo, a cominciare da Heidegger e Wittgenstein.
Se però questa resistenza è condivisa, come abbiamo appena visto, anche da alcuni dei protagonisti della discussione in corso, si può sperare che questa opposizione nei programmi non chiuda ogni possibilità di dialogo. In altri termini, è possibile forse individuare un'istanza più generale, condivisa di fatto dalla cultura contemporanea nel suo insieme, che permetta di indagare senza pregiudizi il rapporto tra pensiero e calcolo, misurando con argomenti legittimi l'utilità e il danno di una loro equiparazione programmatica. Proprio al tentativo di guadagnare questo punto di vista superiore sono dedicate le pagine finali del volume di Marconi, che per questo sono forse le più dense e stimolanti del lavoro. Il punto di partenza qui è dato dall'archeologia delle scienze umane di Foucault, o più esattamente da una discussione tra Foucault e Chomsky svoltasi in Olanda nel 1974 (e oggi inclusa negli scritti di Foucault) sul tema della natura umana.
L'idea di Foucault, com'è noto, è che le scienze umane - con esse gran parte della cultura moderna - abbiano considerato l'uomo non come entità biologica, ma solo come soggetto di rappresentazioni, producendo così una totale dissociazione tra il piano biologico e quello culturale. Quest'uomo senza natura è però "un'invenzione recente" che è forse già in via d'estinzione, man mano che l'unità autoreferenziale del linguaggio ridefinisce l'organizzazione dei saperi. Ora, l'idea di Marconi è che Foucault abbia ragione nella diagnosi e torto nella prognosi. La scissione che dominava le scienze umane non si è risolta infatti in un'esperienza pervasiva del linguaggio, ma al contrario in una crescente naturalizzazione dell'uomo, che riporta le sue facoltà linguistiche al loro fondamento biologico - e il cognitivismo rappresenterebbe uno stadio decisivo di questa naturalizzazione. Più che la contrapposizione in superficie, l'aspetto interessante qui è l'emergenza di un terreno di fondo comune. La necessità di superare la scissione tra il momento biologico e quello culturale è riconosciuta infatti sia in Foucault che nei cognitivisti, ed è questo progetto comune a dover misurare la coerenza delle reciproche strategie. Anche il programma cognitivista, infatti, non è privo di ambiguità su questo punto. In primo luogo, uno dei suoi presupposti basilari è che i processi cognitivi siano, in quanto algoritmi, del tutto indipendenti dal supporto materiale in cui prendono forma. Un calcolo, insomma, è sempre uguale, che a eseguirlo sia una macchina o un cervello - il che però riproduce di fatto la dissociazione tra il momento logico e quello biologico. Inoltre, il carattere necessariamente formale del calcolo porta ad escludere, come non pertinenti, tutti gli aspetti semantici del linguaggio: "la verità, il riferimento e tutte le altre nozioni semantiche non sono categorie psicologiche. Sono modi del Dasein" - la citazione non viene, come forse potrebbe sembrare, dalle pagine di Heidegger, ma da quelle di Jerry Fodor, il più noto portavoce del funzionalismo contemporaneo. In altre parole, il cognitivismo ortodosso rischia di ingolfarsi proprio in quella dissociazione che era chiamato a superare, smarrendo così l'unità della natura umana.

Forzando forse un po' la mano al testo di Marconi, si potrebbe proporre a questo punto di isolare, alle spalle del cognitivismo vero e proprio, un orizzonte più generale riducibile a due punti: (1) Il fondamento dell'esperienza non è un soggetto trascendentale più o meno mitologico, ma la costituzione psicofisica dell'uomo, dunque un ambito fenomenico oggettivo e accessibile, in linea di principio, a un'indagine scientifica. (2) L'aspetto biologico e quello linguistico non sussistono nell'uomo uno accanto all'altro, ma nella forma di un'unità essenziale; non è insomma la loro semplice coesistenza che occorre pensare, ma la loro indistinzione. Si potrebbe indicare col termine antropologismo quest'orientamento di fondo, ricordando che fin da Essere e tempo Heidegger è stato criticato dai fenomenologi proprio in quanto presunto antropologista, e che il richiamo all'antropologia è centrale negli ultimi scritti di Wittgenstein come, del resto, nelle tarde osservazioni di Foucault sulla biopolitica. E' possibile insomma che proprio il tema della natura umana consenta di superare gli steccati tradizionali tra le due culture, non per cancellare le differenze ma per renderle produttive, leggendole come articolazioni e strategie alternative di un progetto comune di comprensione del mondo.

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